الاثنين، 25 مايو 2015

Weber, Max


Weber, Max. - Sociologo e storico (Erfurt 1864 - Monaco di Baviera 1920). La sua sociologia, concepita come scienza pura, è immune da concetti naturalistici e da costruzioni speculative: polemico al tempo stesso contro positivismo e storicismo, W. si proponeva di studiare le azioni tipiche, le probabilità calcolabili nel comportamento degli uomini, non i valori soggettivi determinanti nella realtà le azioni; onde la legittimità di una ricerca dei nessi mezzi-fine, non in vista di un giudizio di valore sui fini stessi, ma in vista dell'adeguatezza dei mezzi per conseguirli (Wertfreiheit "libertà dai valori"). Enorme la sua influenza, in particolar modo sulla sociologia statunitense (T. Parsons, Ch. Wright Mills).

VITA E OPERE

Laureatosi a Berlino alla scuola di L. Goldschmidt passò poi, sotto l'influenza di Th. Mommsen, alla storia agraria romana. Chiamato nel 1894 alla cattedra di economia politica di Friburgo in Br., poi nel 1897 alla stessa cattedra di Heidelberg, si trovò a dover/">dover prendere posizione tra scuola storica di Berlino (che faceva capo a G. Schmoller) e scuola teoretica di Vienna (di cui era principale esponente C. Menger). Nel 1903 assunse con E. Jaffé la direzione dell'Archiv für Sozialwissenschaft und Politik, nel quale comparvero i due celebri saggi Über die Objektivität sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnisse e Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus, che inaugurarono la sua attività più originale e feconda. Questi studi lo condussero a formulare una nuova metodologia della ricerca scientifica nelle scienze sociali (storia, economia e, soprattutto, sociologia), che pose in atto nel volume Wirtschaft und Gesellschaft (post., 1922). Nel 1918 accettò la cattedra di sociologia a Vienna, ma la catastrofe lo fece tornare in patria. Compilò con H. Delbrück e altri la risposta del governo tedesco all'accusa di responsabilità per la guerra, collaborò alla redazione della costituzione di Weimar e fu tra i fondatori del Partito democratico tedesco. Nel 1919 fu chiamato alla cattedra di sociologia di Monaco. Postume apparvero le raccolte dei suoi saggi di Religionssoziologie (1920-21), di Wissenschaftslehre (1922), di Soziologie und Sozialpolitik (1924) e di Sozial- und Wirtschaftsgeschichte (1924). I contributi principali di W. in campo sociologico sono rappresentati dall'indagine sui rapporti tra forme religiose e forme economiche, a partire dalla citata ricerca Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus per finire allo studio comparato delle religioni orientali (taoismo, confucianesimo, induismo, buddismo, giudaismo), nell'intento di mostrare, contro le interpretazioni correnti di derivazione marxista (R. Stammler, W. Sombart), l'irriducibilità del comportamento sociale a cause puramente economiche. Celebre la discussissima tesi che fa risalire la formazione dello "spirito" capitalistico (imprenditorialità razionale) all'influenza delle posizioni etiche calvinistiche che concepivano il lavoro come vocazione, ascesi intramondana. Particolarmente importante l'impostazione data alla ricerca sociologica in Wirtschaft und Gesellschaft, dove al centro dell'analisi sono l'azione individuale provvista di senso (Sinn; onde la necessità di una Verstehende Soziologie o sociologia della comprensione), la definizione dell'azione nella sua dimensione individuale e sociale, le indagini sui processi di formazione dei gruppi sociali sulla base di interessi materiali (ricomprendendo in quest'ambito anche le classi sociali) e di affinità di credenze e valori, lo studio delle relazioni sociali basate sull'autorità (tipologia dell'autorità e delle forme di potere: carismatica, tradizionale, legale). Nel campo metodologico W. ha formulato il concetto di "tipo ideale" (Idealtypus) come strumento della conoscenza storica: concetto-limite che deve servire a ordinare i dati empirici. In generale, sotto l'influenza di H. Rickert, W. ha mirato a dare rigore di metodo e precisione di concetti alla scienza. Notevoli anche le sue Gesammelte politische Schriften (post., 1921), testimonianza della sua appassionata partecipazione alle vicende politiche della Germania tra conflitto mondiale e repubblica di Weimar.

الجمعة، 22 مايو 2015

azioni umane

storia Il complesso delle azioni umane nel corso del tempo, nel senso sia degli eventi politici sia dei costumi e delle istituzioni in cui esse si sono organizzate. Modernamente, anche tutto ciò che le condiziona e ciò che esse coinvolgono (fatti geografici ed ecologici, fatti demografici, presupposti antropologici e sociologici, fatti economici).

Il greco Erodoto (5° sec. a.C.) introdusse il termine ἱστορία per indicare sia l’attività di ricerca sia i suoi esiti. Caratteristico del concetto di s. è la sua ambiguità semantica, in quanto esso indica tanto le res gestae (gli «eventi»), quanto l’historia rerum gestarum (il «racconto degli eventi»). Anche nella riflessione sulla s. sono due le connotazioni del termine, che può essere inteso come filosofia della s. (riflessione sul corso della s., volta a scoprirvi un orientamento generale), e come metodologia della s. (riflessione sul metodo della ricerca).

1.1 La s. come processo unitario


La nozione di s. come processo unitario, comprensivo delle vicende degli uomini in tempi e luoghi diversi, e quindi coestensivo con lo sviluppo stesso dell’umanità, è una nozione tipicamente moderna, che si formò nel 18° sec., in concomitanza con la nascita di quella che Voltaire per primo designò come filosofia della storia. Il suo sorgere presuppone il passaggio dalla s. di vicende circoscritte nel tempo e nello spazio alla s. tout court e lo svincolamento delle res gestae dall’historia: la s. diventa così un oggetto a sé stante, una realtà che va colta nella sua unità e nella sua articolazione e a questo scopo sorge l’esigenza di una s. universale e, al limite, di una filosofia della s. che si colloca su un piano ulteriore rispetto a essa.

Alla base di questo passaggio vi è l’allargamento dell’orizzonte storico che si compie in virtù delle esplorazioni oceaniche, della scoperta del Nuovo Mondo, dei nuovi rapporti con l’Oriente, e quindi la conoscenza di società e culture estranee a quella europea. Dalla consapevolezza che la s. di queste società è indipendente e irriducibile al processo che dall’antichità greco-romana ha condotto all’Europa moderna, sorge l’esigenza di una s. universale in grado di abbracciare anch’esse. La Philosophie de l’histoire di Voltaire fornisce un quadro della s. dell’umanità dallo stato selvaggio alla civiltà non limitato all’ambito europeo. L’unità della s. si presenta quindi come un processo che abbraccia le vicende dei singoli popoli e li mette in rapporto tra loro. Le singole nazioni hanno i loro costumi e il loro ‘spirito’ peculiare, ma si incontrano e si scontrano in un teatro comune.

La nozione di s. risponde quindi in primo luogo a un’esigenza di collegamento di processi distinti e differenziati, che può essere soddisfatta attraverso la comparazionedei modi di vita, delle strutture politiche, dei sistemi di credenza, rivolta a determinare le condizioni del sorgere e della permanenza delle diverse forme di governo (Montesquieu), oppure a distinguere ciò che deriva dalla natura degli uomini, non soggetta a mutamento, e ciò che è invece prodotto della consuetudine (Voltaire). Oppure può essere soddisfatta considerando i singoli popoli come momenti successivi di un unico processo.

L’unità del processo non esclude però un’articolazione interna, sia essa costituita da una pluralità di percorsi o direzioni di sviluppo oppure anche da unità in esso comprese. Il momento della pluralità apparirà sempre più marcato nelle formulazioni novecentesche della nozione di s.: per W. Dilthey il mondo storico è una connessione dinamica che comprende in sé una molteplicità di connessioni dinamiche rappresentate dai sistemi di cultura e di organizzazione sociale, ma anche dalle epoche che in esso si succedono, ognuna contrassegnata da propri valori e dalla tendenza a realizzare determinati scopi. Per la filosofia della s. di G.H.F. Hegel, la s. universale è la realizzazione progressiva dello spirito del mondo, attraverso il succedersi dei diversi spiriti dei popoli. La filosofia della s. hegeliana non è l’unica concezione del processo storico che faccia appello a un soggetto unitario: analogo è, per esempio, il ruolo dell’umanità in A. Comte, o dell’evoluzione nella ‘vulgata’ positivistica di ispirazione spenceriana. In tutti questi casi l’unità del processo storico trova il proprio fondamento nell’unità del soggetto che si realizza nel suo corso.

Ma l’unità della s. può essere concepita anche come unità di fine. Il processo storico può cioè essere inteso come un succedersi di momenti orientati verso la realizzazione di uno scopo, e il suo significato esser riposto in essa. La considerazione hegeliana degli individui come strumenti dello spirito del mondo comporta che i loro bisogni e i loro interessi diventino il mezzo con il quale si compie lo sviluppo dell’autocoscienza. Il fine della s. può essere concepito in modi differenti: come intrinseco al processo storico, oppure come assegnato a esso dal di fuori, dalla natura, o ancora come stabilito da un essere superiore che lo dirige così come governa, con le sue leggi, la natura stessa. Nel primo caso la s. è considerata come un processo teleologicamente orientato in forma autonoma, contrassegnato dal trapasso da un originario stato selvaggio di esistenza dell’uomo a uno stato di barbarie e quindi di civiltà, o finalizzato al conseguimento della libertà o alla soppressione dello stato di alienazione prodotto dalla proprietà dei mezzi di produzione e dalla conseguente riduzione del lavoro umano a merce. Nel secondo caso la s. è considerata come parte integrante della natura, sottoposta alle medesime sue leggi oppure a leggi che ne costituiscono una specificazione, e più precisamente come una fase, di solito l’ultima, di un processo evolutivo che dal mondo inorganico conduce a quello organico, e dalla vita alla coscienza. Nel terzo caso la s. si configura come l’attuazione di un piano provvidenziale che ha come fine il regno di Dio, sia esso realizzabile sulla terra o in un mondo ultraterreno. Queste diverse forme di unità si presentano variamente combinate nella cultura moderna.

2. Concezioni cicliche e concezioni lineari


A una concezione ciclica della s., che vede nelle vicende umane il ripetersi di un medesimo processo, si contrappone la concezione lineare, che considera le vicende umane come una successione caratterizzata dalla relativa novità di quanto accade. L’immagine del tempo come cerchio e quella del tempo come linea o freccia costituiscono i modelli più generali di interpretazione della storia. Il modello ciclico, che riflette per un verso il ritmo del giorno e della notte, per l’altro l’alternarsi delle stagioni e dei raccolti, è il più antico; comporta l’assimilazione delle vicende umane a quelle naturali ovvero l’indistinzione tra natura e cultura. Le sue radici affondano nel pensiero mitico.

Si è ritenuta propria dell’antichità una visione ciclica del tempo, mentre si è attribuita alla tradizione ebraico-cristiana, in particolare alla visione teologica di matrice agostiniana, l’elaborazione di una visione lineare. Il pensiero greco ha elaborato teorie cicliche sia a livello cosmologico, sia in ambito più propriamente politico, come nella dottrina che istituisce un rapporto di successione tra le diverse forme di governo. Ma in esso vi sono anche teorie che concepiscono lo sviluppo dell’umanità come un processo di decadenza a partire da un’originaria età dell’oro (Esiodo), o da una costituzione perfetta (Platone); in generale, la storiografia greca e quella romana non si ispirano a una concezione generale della storia. Né la concezione lineare costituisce la caratteristica distintiva della visione ebraica della s., e neppure di quella cristiana. A base della prima vi è piuttosto la nozione di un patto con Dio, che adempirà con l’invio di un messia la promessa del riscatto dall’oppressione; la continuità del racconto biblico riflette appunto la convinzione dell’intervento costante della divinità a sostegno del proprio popolo.

Alla base della visione cristiana vi è l’assunzione di un evento straordinario, l’incarnazione di Dio in Cristo e il suo sacrificio, come evento centrale della s., spartiacque tra l’umanità da redimere e l’umanità redenta, al di là del quale si apre il tempo della speranza in un regno non più terreno ma ultraterreno. Più che il carattere lineare, è il rapporto con la salvezza che costituisce la base della visione cristiana della s., qual è stata elaborata a partire da s. Agostino: ciò comporta la finalizzazione della s. intera alla s. della salvezza, che consente di recuperare la teoria della successione degli imperi – già largamente diffusa nella cultura ellenistica – e di considerare l’unificazione politica del mondo civile sotto l’impero di Roma come condizione della diffusione del messaggio cristiano. Per quanto riguarda il futuro, comporta una prospettiva escatologica che può dar luogo all’attesa di una imminente fine del mondo, e quindi del giudizio finale, o, come in Gioacchino da Fiore, all’attesa del regno dello spirito, che seguirà il secondo regno, inaugurato dall’avvento di Cristo.

L’età moderna segna l’affermazione della concezione lineare, il più delle volte nei termini di un processo positivo, di un graduale avanzamento dell’umanità verso un livello di vita superiore; concezione ciclica e concezione lineare continuano comunque a sussistere entrambe, sebbene in misura/">misura diversa, trovando alimento anche nello sviluppo del sapere scientifico.

La maggior parte delle teorie della s. formulate a partire dal 18° sec. mira a determinare una linea di sviluppo dell’umanità a cui ricondurre le vicende particolari dei singoli popoli. Ciò comporta per un verso l’integrazione in un quadro unitario anche delle società extraeuropee, per l’altro la considerazione dell’Europa moderna come culmine di un processo del quale queste altre società diventano – in una prospettiva universale – momenti preparatori. I tentativi di declinare al plurale la nozione di civiltà rimangono allo stato di enunciazioni. Ancora nel 19° sec. l’evoluzionismo, applicato al mondo storico, mette capo all’individuazione di una linea di sviluppo comune sia alle società storiche, sia (in ambito antropologico) alle culture ‘primitive’.

Sovente, nelle teorie della s. concezione ciclica e concezione lineare si combinano, e sono compresenti in uno stesso autore. Nella prima metà del 18° sec., nella teoria dei corsi e ricorsi storici di G. Vico, la s. ideale eterna, che costituisce il modello di sviluppo di tutte le nazioni, prevede un ritorno all’indietro, che segna l’inizio di un nuovo ciclo; alla fine del secolo, per J.G. Herder il ciclo storico diventa un elemento interno a un processo che presenta, nel suo insieme, un carattere lineare. Nel 20° sec. si avrà un parziale ritorno alla concezione ciclica, sulla base dell’assunzione di un modello organicistico; ma ciò avverrà lasciando cadere, e anzi respingendo apertamente, il presupposto dell’unità del processo storico.

3. Progresso e decadenza


Progresso e decadenza costituiscono i due poli opposti della concezione lineare della storia. L’età moderna è contrassegnata da una concezione che concepisce il processo storico come progresso. Le teorie del progresso fanno spesso ricorso all’analogia tra sviluppo dell’individuo e sviluppo del genere umano, e concepiscono perciò quest’ultimo come una sequenza di fasi corrispondenti alle diverse età dell’uomo. Per F. Bacone, e dopo di lui per molti moderni, l’antichità rappresenta l’infanzia dell’umanità, il mondo moderno la maturità. La prova della superiorità dei moderni rispetto agli antichi è indicata nella possibilità di avvalersi dell’esperienza di questi ultimi, di accrescere il patrimonio di sapere da essi acquisito e tramandato. Il tempo stesso diventa così fattore di progresso, o per lo meno il suo metro; il futuro si presenta quindi (Condorcet), come un terreno aperto al progresso indefinito dell’uomo, destinato a modificare la sua stessa natura fisica e morale. In seguito, il posto che un popolo occupa nel tempo verrà fatto coincidere con il grado di sviluppo che esso rappresenta nel cammino ascendente dell’umanità. Per Hegel ogni popolo è un momento nel processo di realizzazione dello spirito del mondo, e quindi nel cammino verso la libertà: una visione del processo storico in cui non c’è posto per arresti o per un ritorno all’indietro del cammino dell’umanità. Nel passaggio dall’una all’altra formazione economica della società K. Marx vede all’opera un processo cumulativo, rappresentato dallo sviluppo della divisione del lavoro che contrassegna il processo produttivo.

Ma l’analogia tra sviluppo dell’individuo e sviluppo del genere umano si prestava a essere utilizzata anche in funzione di una teoria della decadenza: dopo la maturità l’individuo invecchia e giunge a morte, attraverso un declino più o meno lungo. Le teorie della decadenza fanno leva su questa fase terminale per affermare il necessario declino di ogni popolo, una volta pervenuto al suo pieno sviluppo: è per esempio il caso di Vico. Non sempre progresso e decadenza si escludono. Montesquieu considera la decadenza romana come il risultato naturale della potenza e della grandezza di Roma. Sulla stessa linea E. Gibbon istituisce un rapporto tra prosperità e caduta, tra ascesa e declino. Prima di Condorcet le teorie settecentesche del progresso riconoscono dunque l’esistenza di periodi di stasi o di declino: anche l’Europa, dopo la caduta dell’Impero romano, è andata incontro a un lungo declino da cui è uscita faticosamente e di recente, da un lato con la nascita della scienza moderna e lo sviluppo di nuove tecniche rivolte al dominio della natura, dall’altro con il nuovo assetto politico fondato sulle monarchie nazionali. Al pari che nel passato, anche in futuro l’umanità potrà conoscere arresti nel suo sviluppo, periodi di declino. D. Hume considera naturale la decadenza dei popoli una volta raggiunto uno stato di perfezione. Così l’alternarsi di progresso e di decadenza consente anche il recupero di una visione ciclica, solo che questa non si riferisce più all’umanità nel suo complesso, ma ai singoli popoli. Il progresso dell’umanità si realizza pertanto attraverso il ciclo ascendente e discendente dei popoli che, in modo analogo agli individui, sono destinati a decadere dopo aver raggiunto la loro maturità.

4. Il senso della storia


Alla base della ricerca del sensodella s. stanno lo spettacolo della transitorietà delle cose, delle alterne fortune degli uomini, delle città e degli imperi, oppure il problema del significato dell’esistenza individuale e della possibilità di salvezza.

Un’impostazione del problema consiste nel concepire la s. dell’umanità come parte integrante della natura, ove le vicende umane sono considerate omogenee a quelle di qualsiasi altro elemento naturale. L’evoluzionismo ottocentesco ha visto nella s. dell’umanità la fase ultima di un processo iniziato con l’evoluzione inorganica e con quella organica: essa presenta caratteristiche nuove, ma è in ogni caso sottoposta a leggi evolutive. Questa impostazione mette capo alla negazione di un senso specifico della s. distinto da quello del processo generale dell’evoluzione: la ricerca del senso della s. richiede infatti il riconoscimento di una differenza tra esistenza umana e natura, tra la collocazione dell’uomo nel mondo e il posto che vi occupano altri esseri.

Il significato delle vicende storiche dell’umanità può essere determinato nello sviluppo stesso o nel rapporto tra lo sviluppo e un elemento esterno, trascendente il corso della s.: nel primo caso il senso della s. coincide con la sua direzione di sviluppo; nel secondo, è individuato nella realizzazione di un piano stabilito dalla volontà di un essere superiore, alla cui realizzazione gli uomini possono, al massimo, cooperare. La prima concezione si ritrova di solito nelle teorie della s. come progresso; la seconda è indifferente all’alternativa tra progresso e decadenza, in quanto li considera entrambi in funzione di un piano provvidenziale.

La visione della s. come realizzazione di un piano a essa esterno ha sempre un fondamento religioso. Questa prospettiva provvidenziale è propria delle religioni monoteistiche sorte sul tronco della tradizione ebraica che vedono nella s. il teatro dell’agire divino. Soprattutto il cristianesimo ha dato vita a una teologia della s. incentrata sull’azione redentrice di Dio fattosi uomo, e sulla subordinazione delle vicende umane allo scopo della salvezza sia dei singoli sia dell’umanità nel suo complesso. La concezione della s. come realizzazione di un piano provvidenziale mette capo a una considerazione del processo storico come s. sacra. Ma la s. sacra può essere contrapposta alla s. profana, oppure inglobarla in sé: nel primo caso costituisce una sezione verticale del processo storico, essa sola fornita di senso: è la s. della ‘città di Dio’, costruita muovendo dal racconto biblico della creazione del mondo al momento centrale dell’incarnazione, per proseguire quindi nella s. della Chiesa ritenuta istituzione di origine divina. In questa maniera la s. profana risulta irrilevante per la realizzazione del piano provvidenziale, e quindi priva di significato, oppure le viene attribuito un significato subordinato. Nel secondo caso il processo storico acquista senso in quanto ogni suo momento è visto in collegamento con il piano provvidenziale: quando Herder indica nella s. dell’umanità «il corso di Dio attraverso le nazioni», o Hegel concepisce la s. universale come sviluppo dello spirito del mondo, la s. intera risulta sacralizzata (anche se in Hegel è una versione secolarizzata della provvidenza). Provvidenza e progresso vengono quindi a coincidere; lo sviluppo dell’umanità verso un livello di vita superiore rientra anch’esso nel disegno divino.

Le teorie della s. come progresso trasferiscono da Dio all’umanità la capacità di organizzare le vicende umane in base a un piano. La s. è il cammino attraverso cui l’umanità si solleva dallo stato selvaggio alla civiltà, non governato da alcun disegno provvidenziale: è il risultato dell’opera degli uomini nel corso di innumerevoli generazioni, da inconsapevole a sempre più consapevole. I fini che gli uomini perseguono sono posti da essi stessi; le società si sono organizzate sulla base di progetti umani, la religione stessa è un prodotto dell’uomo che ha contribuito all’incivilimento dell’umanità; quando si è associata al fanatismo e all’intolleranza, è stata invece fattore di barbarie. Entrambe queste alternative fanno riferimento alla s. considerata come processo unitario; presuppongono cioè un senso immanente oppure trascendente, che in qualche modo sovrasta l’agire del singolo individuo.

Il declino delle teorie del progresso, a partire da metà 19° sec., ha messo in crisi anche la ricerca del senso: se nel processo storico non si può ravvisare una direzione più di quanto vi si possa scorgere la realizzazione della volontà divina, allora esso non ha neppure più un senso immanente, intrinseco al processo stesso. La s. riceve il proprio senso dall’agire degli uomini che la producono, o dal sapere storico che ne interpreta, ricostruendole, le vicende; la ricerca del senso si risolve così nello sforzo di dare significato agli avvenimenti.

5. La s. e le ‘storie’


Con lo storicismo contemporaneo, a partire da Dilthey, il problema della s. si è trasformato nel problema della storicità dell’uomo, della sua capacità di proporsi scopi e di produrre valori diversi da epoca a epoca, da società a società. È così venuta meno la possibilità di concepire la s. come unità, come totalità onnicomprensiva. A ciò si è affiancato l’abbandono della prospettiva eurocentrica adottata dalle teorie della s. come progresso. Il distacco è cominciato con lo studio delle culture considerate primitive, di cui la ricerca antropologica dei primi decenni del 20° sec. ha posto in luce l’individualità. Applicato a ogni società, il principio storicistico dell’individualità ha messo in crisi la riduzione a una linea unitaria di sviluppo.

Ma la vera svolta è avvenuta sul terreno filosofico, legata al venir meno della fiducia nella sopravvivenza stessa della civiltà europea all’indomani di una guerra fratricida come quella del 1914-18. Il «tramonto dell’Occidente» proclamato da O. Spengler si presentava come caso particolare di un destino di morte comune a tutte le civiltà, passate e presenti. Umanità è solo un «concetto zoologico», e quindi non possiede una s.; storicamente esistono le singole culture, che nascono, si sviluppano e decadono in modo uniforme, ma rimanendo irriducibili l’una all’altra. L’unità del processo storico si risolve così nella pluralità delle culture. Diversa, e in polemica con quella radicale spengleriana è l’interpretazione di A.J. Toynbee, per il quale la s. è sì s. di civiltà, ma è anche il luogo in cui queste si incontrano e si scontrano, e in cui le civiltà posteriori ereditano il patrimonio culturale di quelle che le hanno precedute. Se Spengler riprende il concetto di ciclo applicandolo alle singole culture, Toynbee recupera l’unità della s. e postula un progresso religioso dell’umanità, considerando le varie civiltà come le ruoteche consentono all’umanità di progredire verso un livello di esistenza superiore.

Entrambe queste teorie della s. sono state sottoposte a critica, tuttavia hanno contribuito a modificare in profondità il modo d’intendere il processo storico. Il vecchio schema tripartito che vedeva la s. suddivisa in Antichità, Medioevo ed Età moderna è stato relativizzato, rivelandosi valido solo in riferimento all’ambito europeo. La stessa continuità tra civiltà antica e civiltà moderna appare problematica; né la cultura europeo-occidentale può essere considerata, alla luce dell’importanza dell’Impero bizantino e della sua influenza nel mondo slavo, l’erede esclusiva di quella greco-romana. Che, al di fuori dell’ambito geografico europeo, si siano sviluppate società e culture fornite di fisionomia specifica, e che esse abbiano percorso cammini differenti, è oggi una tesi unanimemente riconosciuta. Anche un’interpretazione del processo storico in chiave di progressiva razionalizzazione, qual è quella di M. Weber, sottolinea la pluralità delle forme e delle direzioni di tale processo e il carattere unico dello sviluppo occidentale e del suo esito.

La pluralità delle culture e del loro processo storico non comporta però necessariamente l’abbandono della nozione di s., ma piuttosto la sua articolazione in diverse storiein parte indipendenti, in parte intrecciantesi. Se le teorie storiche del primo Novecento hanno posto in luce l’autonomia delle società e delle culture, la loro irriducibilità a un medesimo processo di sviluppo, le vicende posteriori hanno portato in primo piano l’esigenza di coglierne i rapporti, di determinare come questi siano venuti configurandosi diversamente nel corso dei secoli. All’unità del processo storico si sostituisce così l’unità di un quadro che permetta di rendere conto della diversità dei percorsi seguiti dalle diverse società, ma anche del loro incontro.

In questa visione di un processo plurale ma interrelato, concetti come quelli di ciclo, di progresso e di decadenza, a cui le tradizionali teorie della s. facevano riferimento, richiedono di essere riformulati: la s. non costituisce un ciclo, ma conosce cicli, soprattutto economici; non è né progresso né decadenza, ma conosce momenti di sviluppo e di declino che riguardano il più delle volte non tanto le società nel loro insieme, quanto aspetti e settori della loro vita. L’intero apparato concettuale della nostra comprensione della s. esige di venir adeguato non solo ai risultati della ricerca storiografica e delle scienze sociali, ma anche alle trasformazioni del mondo.

الثلاثاء، 19 مايو 2015

sociologia Scienza che ha per oggetto i fenomeni sociali indagati nelle loro cause, manifestazioni ed effetti, nei loro rapporti reciproci e in riferimento ad altri avvenimenti.

1. Nascita e primi sviluppi


La nascita della s. come scienza autonoma è una vicenda concettuale che corrisponde ad alcune componenti significative della rivoluzione industriale compiutasi in Europa durante il 19° sec.: il progresso tecnico e materiale; la trasformazione dei modi di produzione e di organizzazione del lavoro; lo sviluppo delle scienze naturali; l’espansione della classe borghese e l’emergere nel suo seno di alcuni gruppi di intellettuali profondamente delusi dai fallimenti della Rivoluzione francese. La nuova scienza della società poteva consentire alle élite intellettuali interventi attivi sull’organizzazione della società stessa. Così è per gli esponenti del positivismo francese dell’Ottocento – con A. Comte e C.-H. de Saint Simon a capofila – e per gli esponenti del marxismo, le due scuole di pensiero che per prime si fecero interpreti di queste esigenze. Di de Saint Simon era l’idea che la società moderna fosse caratterizzata dall’industria e dalla produzione in genere; che gli scienziati e gli industriali dovessero diventare le classi dirigenti della nuova società; che un nuovo tipo di religione ‘laica’ e umanistica avrebbe dovuto garantire l’integrazione sociale; che si dovesse costruire una teoria generale a fondamento dell’unità delle conoscenze umane.

Queste idee furono ereditate e sviluppate da Comte nel progetto di una s. positiva – distinta, come in un manuale di fisica, tra statica e dinamica – che aveva come scopo quello di fissare le leggi oggettive dello sviluppo sociale, individuate in particolare nella legge del progresso e nella legge dei ‘tre stadi’ (teologico, metafisico e positivo) attraverso i quali si compie necessariamente l’evoluzione storica di ogni società. Alla società considerata alla stregua di un organismo naturale si ispira anche H. Spencer (Principles of sociology, 1883), che applica alla società il concetto di evoluzione tratto dalla biologia darwiniana. Le teorie dell’evoluzionismo sociologico ebbero un seguito particolare in Italia con le diverse correnti della s. giuridica e criminale (da R. Ardigò a G. Ferrero, da C. Lombroso a E. Ferri.). L’altra scuola importante nella fase che si potrebbe definire della protosociologia si richiama al pensiero di K. Marx, dal quale derivano alcune fondamentali categorie (divisione del lavoro, classi sociali, alienazione ecc.).

Dal punto di vista metodologico, la s. è subito segnata dalla contrapposizione fra positivismo e storicismo, ovvero fra la tendenza a ricondurre l’analisi dei fatti sociali al modello di spiegazione generalizzante proprio delle scienze naturali e la tendenza a costituirla come scienza a sé che, al pari della ricerca storiografica, è orientata piuttosto verso compiti interpretativi. Sul primo versante spicca l’opera di É. Durkheim, cui va il merito di aver fondato (o rifondato) la s. su basi di scienza empirica e come ricomposizione coerente di teoria e fatti; sul secondo si situano le riflessioni degli esponenti più rappresentativi della cosiddetta Scuola neokantiana: W. Dilthey, W. Windelband, H. Rickert, cui si deve il tentativo di sistematizzare una linea di demarcazione fra le scienze della natura e le scienze della cultura. Questa dicotomia è in parte ricomposta da Max Weber, per il quale la s. e le scienze sociali in genere, pur muovendosi sul terreno del sapere ontologico e privilegiando l’interpretazione dei fenomeni, non rinunciano al sapere nomologico, cioè agli strumenti della generalizzazione empirica e della causalità sotto forma di leggi.

Altri autori, sempre in Germania, contribuirono al progresso della s. di impianto storicista, approfondendo alcune categorie fondamentali della teoria sociologica: fra questi, F. Tönnies, G. Simmel, E. Troeltsch, A. Weber, M. Scheler, E. Gothein.

2. Evoluzione successiva


Nel corso del 20° sec., la s. si caratterizza per il passaggio e la continua oscillazione dagli estremi della grande teorizzazione agli estremi dell’empirismo astratto. La scuola americana dello struttural-funzionalismo di T. Parsons rappresenta la società come un sistema integrato di ruoli, strutture e funzioni. Tutta una generazione di sociologi – fra i quali G.C. Homans, E. Shils, N.J. Smelser – si ispireranno a questa impostazione, sia pure cercando di correggerne gli aspetti più problematici e controversi: R.K. Merton nell’intento di sostituire il funzionalismo assoluto di Parsons con un funzionalismo relativo, introduce l’idea che, accanto alle funzioni, possano esistere anche disfunzioni, accanto alle funzioni manifeste anche funzioni latenti nonché effetti non attesi nelle conseguenze delle azioni sociali. Infine, da un punto di vista metodologico, fornisce l’indicazione di teorie a medio raggio che possono servire meglio l’attitudine della s. come scienza empirica. Per un altro verso, la s. empirica della cosiddetta Scuola di Chicago si caratterizza per la ricerca quasi maniacale dei metodi quantitativi (P.F. Lazars;feld).

A porre con forza le ragioni dell’individualismo metodologico nelle scienze sociali sono gli esponenti della scuola marginalista austriaca – già con C. Menger agli inizi del 20° sec., e poi con L. von Mises e F. von Hayek – che si contrappongono alla maggior parte delle teorie ereditate dalla tradizione sociologica. La Scuola di Francoforte di M. Horkheimer e T.W. Adorno rivendica, invece, contro le pretese dello scientismo, il primato di una s. critica orientata all’elaborazione di programmi non solo conoscitivi ma anche di azione politica, in particolare contro la razionalità del capitalismo maturo e i suoi strumenti tecnologici e consumistici di dominio sulle masse. Il movimento dei francofortesi accelera un processo di crisi, di identità e di consenso interna alla disciplina, causandone la frantumazione in una pluralità di metodi, approcci e teorie.

L’alternativa fra individualismo metodologico e olismo si riduce, a cavallo fra gli anni 1970-80, a una scelta fra diversi livelli di analisi, ovvero fra contesti di micro- e di macro;analisi. Dalla parte della microsociologia stanno le offerte di metodo e di analisi che si possono definire come s. della vita quotidiana (G.H. Mead, W.I. Thomas, E. Goffmann, H. Garfinkel, A.V. Cicourel, A. Shutz). Dalla parte della macrosociologia si collocano le teorie strutturaliste e sistemiche sulla società. La complessa architettura sociologica di N. Luhmann costituisce un esempio interessante di teoria sistemica costruita con i contributi di più teorie analitiche. Lo strutturalismo – dopo la fase classica degli anni 1960 – ha riproposto una lettura di una società asincronica e di una storia i cui contenuti di socialità sono dati dagli insiemi statici e relazionali di organizzazioni, simboli, forme discorsive assunti sia come modelli euristici, sia come oggetti reali di analisi (A. Giddens, M. Crozier, L.A. Coser).

3. Tendenze della s. contemporanea


Tre linee di tendenza caratterizzano lo sviluppo della s. contemporanea. La prima concerne la moltiplicazione dei paradigmi teorici e degli approcci metodologici. La seconda riguarda la progressiva espansione dei campi della ricerca empirica, in particolare della ricerca applicata, a scapito dell’elaborazione teorica generale. La terza, diretta conseguenza delle due precedenti, è rappresentata dalla frammentazione della disciplina in una pluralità di sottodiscipline che hanno acquisito nel tempo una sempre maggiore autonomia. Sono pochi i sociologi che nutrono ancora ambizioni teoriche così generali da comprendere sotto un unico mantello teorico le altre scienze sociali. Sembra inevitabile dunque che i confini tra la s. e le altre discipline (storia e psicologia sociale comprese) restino sfumati e per di più mutevoli nel tempo. Difficoltà di particolare rilievo si incontrano nel passare dal livello micro al livello macro dell’analisi sociologica. Nell’ampio quadro delle teorie macrosociologiche, il neofunzionalismo/">neofunzionalismo (➔ funzionalismo) ha formulato nuove ipotesi in diversi campi di studio quali quelli relativi alla cultura, al mutamento sociale e alla s. politica.

Uno dei tratti più rilevanti della s. contemporanea è rintracciabile nel notevole incremento della ricerca applicata, in continua espansione anche per corrispondere ai crescenti bisogni conoscitivi non solo delle autorità politiche e delle amministrazioni pubbliche, ma anche di grandi organizzazioni di interessi, di fondazioni con scopi filantropici o di promozione sociale.

Anche la frammentazione disciplinare della s., fenomeno certo non recente, è in progressiva espansione, con lo sviluppo di sottodiscipline sempre più autonome. Tale tendenza è inevitabile non solo perché riflette la più generale tendenza alla specializzazione dei saperi, quanto perché il campo dei possibili interessi di studio della s. è di fatto sterminato.

4. S. dell’arte


La nozione, introdotta da M. Weber nel 1917, e intesa in senso generale come indagine sui rapporti tra arte e società, si presenta complessa e problematica: va infatti operata una distinzione tra studi di s. della cultura, indagini sociologiche vere e proprie applicate alle professioni o ai criteri di valutazione artistici e l’ampio spettro di posizioni per le quali è preferibile la definizione di storia sociale dell’arte. Al primo caso sono riconducibili le posizioni di G. Lukács o T.W. Adorno, nel secondo vanno incluse ricerche come quelle di A. Boime, C. Charle, H.S. Becker, W. Kemp, P. Bourdieu. Nel terzo caso, e cioè nell’ambito degli studi storico-artistici, più che una vera e propria metodologia sociologica si deve rilevare una molteplicità di indirizzi di ricerca che mettono in causa il nesso arte-società all’interno di una consapevolezza, variamente sfumata, degli aspetti stilistici, simbolici, tecnici e comunicativi delle opere. Appartengono a questo ambito gli studi di J. Ruskin, G. Semper, R. Krautheimer, W. Benjamin, A. Hauser, F. Antal, F. Klingender.

All’approccio di questi autori si andò contrapponendo a partire dagli anni 1950 un nuovo concetto di storia sociale dell’arte, di cui sono interpreti E.H. Gombrich e altri studiosi di area anglosassone, che affronta le condizioni materiali in cui l’arte è stata prodotta e fruita, le strutture istituzionali, la committenza, il pubblico. Un’altra direzione di ricerca è quella che prende in esame le abitudini e le attese del pubblico, cercando di individuare le preferenze e le griglie culturali attraverso cui viene filtrata la produzione artistica (E. Panofsky, M. Schapiro, M. Baxandall, G. Romano). La corrente della gender critic ha posto in primo piano, con le ricerche di T.J. Clark, L. Mulvey e G. Pollock, la questione della differenza (di genere sessuale, di classe sociale ecc.) nella produzione e nella decodificazione dei messaggi artistici.

5. S. della comunicazione


La definizione dell’ambito della s. della comunicazione si deve a H.D. Lasswell (1927), ed è esprimibile nella formula «chi dice cosa, a chi, con quali effetti». All’inizio degli anni 1950, E. Katz e P.F. Lazars;feld nell’ambito di una complessa ricerca sull’influenza personale nel flusso della comunicazione di massa, enunciarono in forma sistematica la teoria del flusso a due fasi, secondo cui il messaggio è veicolato dal mezzo al ‘leader d’opinione’ e da questo, una volta decodificato in coerenza con la subcultura del gruppo, riproposto ai ‘seguaci’. Questa teoria ha costituito il paradigma dominante nella s. della comunicazione per oltre vent’anni.

I sociologi della comunicazione in particolare ancora discutono se e in quale modo possano essere accertati effetti sociali di lungo periodo sui modelli di comportamento, sugli stili di vita, sui modi di sentire e di pensare del pubblico, in particolare di quello televisivo. Ci si è domandati, fra l’altro, quali effetti sociali siano ascrivibili alla programmazione evasiva, con risposte che hanno oscillato fra quella di P.F. Lazarsfeld e R.K. Merton (Mass communication, pop;ular taste and organized social action, 1948), secondo cui i messaggi evasivi darebbero luogo a una «disfunzione sociale narcotizzante», e quella, più rassicurante, di J.T. Klapper (The effects of mass communication, 1960), secondo cui «il materiale d’evasione tende con tutta probabilità a riconvalidare l’apatia sociale dell’apatico, ma non spegne il sacro fuoco di chi è socialmente attivo». Si è potuto accertare che l’introduzione della radio e soprattutto della televisione in zone rurali o isolate contribuisce a sconvolgere gerarchie di status consolidate da secoli; che i programmi televisivi violenti possono avere, in determinate circostanze, effetti di stimolo dell’aggressività adolescenziale e infantile; che tra gli effetti della prolungata esposizione dei bambini alla televisione c’è da un lato l’acquisizione di una precoce maturità cognitiva, dall’altro la formazione di una peculiare subcultura preadolescenziale.

Una crescente attenzione è stata dedicata ai modi della comunicazione politica. È individuabile una peculiare logica dei media che, nel caso della televisione, esige una sintassi lineare-visuale di eventi e una struttura narrativa elementare, rapida e incalzante, nella presentazione delle notizie. Ciò implica spettacolarità e un linguaggio che enfatizza i conflitti, vale a dire una grammatica incentrata sulla drammatizzazione.

6. S. della conoscenza


Ramo della s. che si occupa dei rapporti tra conoscenza e realtà sociale. Nata in Germania, trova la sua più compiuta espressione nell’opera di K. Mannheim (specie in Ideologie und Utopie, 1929), che sostenne l’inevitabile influenza del contesto sociale su qualunque forma di pensiero e di conoscenza. In ambito statunitense le tematiche della s. della conoscenza sono state ulteriormente sviluppate da R.K. Merton, che ha tentato un’integrazione del punto di vista della s. della conoscenza con quello della s. strutturale-funzionale. Nella direzione di una s. della conoscenza che non si limiti a trattare il problema dell’ideologia ma affronti piuttosto il tema della conoscenza come tale, del senso comune anzitutto, nel suo rapporto con il contesto sociale, si sono mossi P.L. Berger e T. Luckmann. Un posto a parte in questo quadro occupa l’opera di P.A. Sorokin, la cui analisi ad ampio respiro sull’evoluzione e il mutamento dei sistemi socio-culturali può essere considerata una forma particolare di s. della conoscenza.

Connessa alla s. della conoscenza, la s. della scienza si propone di analizzare le condizioni sociali e culturali entro cui si sviluppa un particolare paradigma epistemologico nei diversi campi umani di esperienza e conoscenza.

7. S. del diritto


Settore specializzato della s. interessato allo studio delle istituzioni giuridiche in rapporto alle funzioni sociali che queste sono designate ad assolvere e a quelle che di fatto assolvono. Si è sviluppata nel Novecento a opera di studiosi di formazione giuridica come R. von Jhering, E. Ehrlich, O. Wendell Holmes e R. Pound; Ehrlich, in particolare, distinguendo il ‘diritto vivente’ dalla giurisprudenza concettuale, sostenne la tesi che la fonte di ogni legge è da ricercarsi nella società piuttosto che nella legislazione o nell’autorità dello Stato. In Italia la disciplina nacque con La filosofia del diritto e la sociologia (1892) di D. Anzillotti, che attribuiva al sociologo un settore specifico di competenza, complementare a quello del filosofo del diritto, nella determinazione del ruolo sociale delle istituzioni giuridiche.

Malgrado gli sviluppi, restano irrisolte le fondamentali aporie della s. del diritto, denunciate dal sociologo francese G. Gurvitch, secondo cui manca ancora una definizione univoca di ‘diritto’ e sopravvivono, nella disciplina, approcci metodologicamente contrastanti e difficilmente sintetizzabili. Lo statunitense P. Selznickha ha individuato nell’insufficiente integrazione fra prospettiva giuridica e prospettiva propriamente sociologica il limite sostanziale della s. del diritto.

La s. criminale è la branca della s. che si occupa dei fenomeni della criminalità. Tra i suoi promotori emerge E. Ferri, il quale la concepì come «una scienza di osservazione positiva che si giova della psicologia, della statistica criminale, come del diritto penale e delle discipline carcerarie», una scienza sintetica che applica il metodo positivo allo studio del delitto, del delinquente e dell’ambiente in cui il delitto si manifesta.

8. S. economica


Risulta dall’applicazione dei concetti, delle variabili e dei modelli esplicativi della s. al complesso di attività che riguarda la produzione, lo scambio e il consumo di beni e servizi. I contributi di maggiore rilevanza provengono da un lato dagli indirizzi del positivismo evoluzionistico e funzionalistico (H. Spencer, É. Durkheim), specialmente attraverso le riflessioni dedicate ai problemi della complessità, nella società moderna, della divisione e specializzazione del lavoro, dell’integrazione e dell’istituzionalizzazione normativa come base stessa delle relazioni di scambio; dall’altro lato dalla s. di matrice storicistica. In questo ambito, vanno ricordate le tesi di G. Simmel sull’imprescindibilità della dimensione economica in ogni contesto di relazioni sociali, le teorie di W. Sombart sul capitalismo moderno, e l’opera fondamentale di M. Weber (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922) volta ad applicare la categoria dell’agire economico razionale alla genesi storica del capitalismo, attraverso l’etica protestante, e alla configurazione del modello burocratico.

La s. economica ha acquisito una propria identità disciplinare per merito soprattutto delle teorie sistemiche di scuola funzionalista, secondo le quali il sistema economico può essere considerato un sottosistema differenziato ma interdipendente dell’azione sociale (T. Parsons e N.J. Smelser, Economy and society, 1956). Per J. Schumpeter, economista con vasti interessi per la cultura sociologica, la s. economica non è che una scienza integrativa dell’analisi economica, che si occupa del modo in cui «le persone sono giunte a comportarsi come si comportano nei loro affari» (History of economic analysis, 1954).

9. S. industriale e del lavoro


Alla fine del 19° sec. e all’inizio del 20° la s. manifesta un’attenzione specifica verso i problemi interni dell’industria e dell’azienda industriale: caratteristiche e ruolo degli imprenditori (T. Veblen), funzione e posizione sociale dei lavoratori (S. Webb), problemi della divisione del lavoro sociale (É. Durkheim), ma soprattutto è M. Weber che può essere considerato il fondatore della s. dell’industria e dell’azienda, come promotore di un programma di ricerche «sulla scelta e l’adattamento dei lavoratori della grande industria» presso il Verein für Sozialpolitik (1907). Una svolta decisiva per gli studi di s. industriale fu determinata dagli esperimenti e dalle ricerche compiute in America da E.G. Mayo e dalla scuola da lui fondata presso il Department of industrial research dell’università di Harvard. Celebre la ricerca presso le officine Hawthorne (della Western Electric Company di Chicago, 1924-32). Dopo la Seconda guerra mondiale, il panorama degli sviluppi della s. industriale ha visto un progressivo estendersi di ricerche e di istituti specializzati.

Nei suoi sviluppi più recenti, la s. dell’industria tende a fondersi con la s. del lavoro nel cui campo è stata prodotta un’ampia letteratura relativa alle forme di organizzazione del lavoro e ai cambiamenti dovuti alle tecnologie produttive. Nell’ambito della s. del lavoro rientrano anche gli studi di s. delle relazioni industriali, con particolare riguardo ai conflitti di lavoro e alle forme di contrattazione.

10. S. della letteratura


Indirizzo di studi che ha il suo punto di riferimento nell’analisi del nesso letteratura-società. All’origine della riflessione sociologica sulla letteratura troviamo i contributi di quella critica romantica che riflette sui problemi della funzione nazionale della letteratura, dei suoi legami con il popolo e con le tradizioni popolari, e infine sul concetto di pubblico, problemi poi ripresi in ambito positivistico, in particolare da H.-A. Taine. La distinzione marxiana di struttura e sovrastruttura, insistendo sul radicamento delle ideologie nei rapporti di produzione, avvalora l’idea di una corrispondenza fra letteratura e sistema sociale. Da tale premessa si dipartono tuttavia indirizzi critici assai diversi, alcuni volti a individuare nelle opere il punto di vista di classe soprattutto per denunciare quelle non rispondenti ai supposti interessi della classe operaia; altri inclini a riconoscere una validità estetica solo alle opere raffiguranti la realtà sociale (realismo borghese e socialista).

Il campo d’indagine della s. della letteratura si è andato spostando nel tempo dall’osservazione delle opere letterarie allo studio di fattori come l’estrazione sociale, l’ambiente di formazione, l’entità e la provenienza del reddito degli scrittori (mecenatismo, secondo mestiere, professionalità ecc.), lo status sociale dell’autore, la sua subordinazione o autonomia, il sistema delle censure e delle ricompense.

Un lavoro approfondito è stato compiuto sulle modifiche apportate dal sistema di riproduzione e diffusione alla composizione e alle competenze del pubblico, ai modi di ricezione dell’opera, al progetto stesso dello scrittore. La produzione a larga diffusione che ha inizio nel primo Ottocento interrompe, secondo R. Escarpit, i precedenti circuiti autore-lettori in cui, per l’appartenenza alla medesima cerchia omogenea e intercomunicante, l’autore poteva facilmente conoscere riserve e apprezzamenti sull’opera. Il nuovo pubblico anonimo dei lettori non possiede più canali propri per esprimere bisogni e giudizi, in quanto il critico appartiene generalmente al medesimo gruppo di intellettuali cui fa capo l’autore. Di qui l’idea, avanzata da Escarpit, di un possibile compito della s. della letteratura, quello di trovare i modi per ristabilire un circuito a doppia direzione. Per conoscere il pubblico reale sono state condotte indagini sulla sua stratificazione sociale, sulle motivazioni di selezione, sui modi di lettura.

La s. della letteratura considera l’opera un fatto sociale non solo per quanto riguarda la genesi del testo, ma anche in quanto essa è percepita come letteratura da un’assise sociale (critici, accademie, cerchie più o meno estese e qualificate di lettori), in quanto viene fruita secondo codici di comunicazione, culturali e ideologici particolari. Da questo punto di vista viene respinta ogni tradizionale divisione a priori fra i grandi scrittori e i minori, fra i capolavori e la letteratura di massa o paraletteratura (in cui rientrano anche giornalismo di consumo, pubblicità ecc.), verso la quale si orientano gruppi consistenti di pubblico, e si tende a identificare gli ambiti sociali di diffusione dei vari generi e la misura/">misura della loro percezione letteraria.

Tra le ipotesi teoriche di s. della letteratura, quelle, opposte fra loro, del controllo sociale da parte dei gruppi egemoni (anche mediante i testi letterari) e della contestazione dell’assetto sociale vigente, o utopia dell’arte (T.W. Adorno, M. Horkheimer); ma vanno ricordate anche quelle sulla funzione di integrazione (coesione o socializzazione) dell’individuo al gruppo e dei gruppi nell’insieme sociale (O.D. Duncan); sulla progettazione e sperimentazione di ruoli sociali, di situazioni, di sentimenti, possibili se non attuali (J. Duvignaud).

A uno stadio più avanzato di verifica sul terreno della ricerca si presentano le tesi di L. Goldmann. L’opera letteraria esprimerebbe la visione del mondo di cui è portatore un gruppo o un aggregato sociale: di conseguenza costituirebbe l’elaborazione formale, fino alla massima coerenza, di elementi concettuali, sentimentali ecc., già presenti implicitamente nel corpo sociale.

11. S. dell’organizzazione


Settore della s. che studia l’insieme delle relazioni deliberatamente scelte dagli individui e dei vincoli dati, necessari per raggiungere obiettivi specifici idonei a durare nel tempo con precise regole di funzionamento. Gli approcci con i quali può essere affrontato lo studio sociologico dell’organizzazione sono due: uno di tipo manageriale, l’altro di tipo strutturale. Il primo rileva gli effetti prodotti dall’ambiente sociale sull’organizzazione e il suo funzionamento; il secondo considera invece il ruolo che l’organizzazione svolge nei confronti del sistema sociale nel quale è inserita, dei suoi equilibri e dei suoi cambiamenti.

A questi diversi approcci possono ricondursi altrettanti indirizzi metodologici: quello proprio della scuola classica (scientific management) che si applica specialmente nell’ambito della s. industriale, e l’altro – proprio della scuola struttural-funzionalista – per il quale l’organizzazione non è che una funzione d’integrazione sociale che rende compatibili gli obiettivi degli individui con gli imperativi del sistema sociale (T. Parsons). L’analisi del fenomeno burocratico, come forma di organizzazione del potere politico, ha spostato sempre più l’attenzione della s. dell’organizzazione verso gli apparati dell’amministrazione pubblica, tanto da costituirla più specificamente come s. dell’amministrazione.

12. S. politica


Vasto settore dell’indagine sociologica, le cui differenziazioni rispetto alla scienza della politica sono oggetto di discussioni e polemiche. Alle origini della s. politica contemporanea si collocano senza dubbio i classici studi sulle élites politiche di G. Mosca e R. Michels; un’altra importante fonte intellettuale è nell’opera di A. de Tocque;ville e, più tardi, nella critica sociale di T. Veblen e di C. Wright-Mills; fra i teorici sociali contemporanei hanno apportato significativi contributi T. Parsons, S.M. Lipset ed E. Shils, mentre il filone degli studi empirici sull’opinione pubblica (sondaggi d’opinione, ricerche sulla partecipazione politica ed elettorale, studi sugli effetti della propaganda) ha favorito, soprattutto negli Stati Uniti, lo sviluppo di un’attitudine empirica fra i sociologi della politica.

L’oggetto centrale della s. politica resta quello definito da M. Weber con l’elaborazione, ormai classica, della tipologia delle forme di potere (tradizionale, carismatico, burocratico-legale). La s. politica ha avuto uno sviluppo impetuoso non solo negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa occidentale, ma anche in numerosi paesi del Terzo mondo e in particolare nell’America latina. La protesta studentesca ha favorito lo sviluppo di studi sulla domanda di partecipazione di categorie sociali tradizionalmente destinate ad assumere posizioni prossime al centro della società; le emergenti istanze di partecipazione operaia hanno richiamato l’attenzione sul rapporto fra lavoro, gerarchie sociali e partecipazione; la decolonizzazione e i fermenti affioranti in diversi paesi del Terzo mondo hanno favorito lo sviluppo di studi comparativi sulle élites, la cultura politica e i meccanismi dei sistemi politici in società che si collocano a diversi livelli di sviluppo economico.

Tutto ciò postula la necessità – come suggerisce N.J. Smelser (Sociology and the other social sciences, 1967) – di tracciare una qualche linea di demarcazione fra s. politica e scienza politica con riguardo al quadro delle rispettive variabili esplicative: mentre la s. politica le sceglie nell’ambito delle condizioni socio-strutturali, la scienza politica le fissa nel complesso delle condizioni politico-strutturali.

13. S. della religione


Lo studio sociologico della religione si può sviluppare a diversi livelli: come indagine sulla religione quale problema centrale per la comprensione della società; come studio della relazione fra religione e altri fattori della vita sociale; come studio delle istituzioni, dei movimenti, dei ruoli religiosi ecc. I primi due livelli d’analisi corrispondono all’orientamento dei massimi rappresentanti di quella s. della religione che, fiorita agli inizi del 20° sec., può definirsi classica: É. Durkheim (teoria funzionale della religione), M. Weber e E. Troeltsch (teoria evolutiva e analisi dell’incidenza della religione sulla vita economica e sociale). Il pensiero di Durkheim è caratterizzato dalla progressiva enfasi sulle componenti normative di quella realtà sui generis che è la società e attribuisce un’importanza sempre maggiore alla religione, che diviene sinonimo del modello funzionale che struttura e integra la società. La teoria funzionale, però, se è soddisfacente per l’analisi delle società primitive, nelle quali il grado di differenziazione fra società e cultura è molto basso, lo è meno per l’analisi delle società altamente differenziate.

Acquisendo il punto di vista di una teoria evolutiva della società, la s. della religione si pone al secondo livello d’indagine e viene a considerare la religione, destituita dal suo ruolo centrale di fattore d’integrazione sociale, nel suo rapporto con gli altri fattori della vita sociale, per rendere conto della funzione modificatrice che essa può esercitare. In questa prospettiva si collocano i contributi di Weber e Troeltsch, che opponendosi alla convinzione marxista di una dipendenza non casuale della religione dalla struttura economica, ma anche alla visione totalizzante della filosofia della storia hegeliana, riconobbero nella religione una variabile indipendente della realtà sociale, capace di determinare o influenzare altri aspetti della medesima realtà e riconducibile nell’ambito motivazionale del singolo individuo in quanto rappresenta la risposta ultima alle esigenze di significato (Weber) o di valore (Troeltsch) che ne muovono l’azione. Nell’opera Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus (1905) Weber evidenziò l’influsso decisivo che la dottrina calvinista della predestinazione ebbe nella formazione del capitalismo moderno e dello spirito a esso soggiacente. Troeltsch, a sua volta, sviluppò un vasto studio delle interazioni fra alcune aree della vita sociale nel mondo cristiano (famiglia, economia, politica, insegnamento) alla luce del fattore religioso, mettendo in evidenza come in ognuna di queste aree il cristianesimo rivelasse due tendenze contraddittorie ma complementari: quella all’adeguamento e quella alla protesta (Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, 1912).

La teoria sociologica, in particolare con T. Parsons, ha cercato una sintesi fra teoria funzionale e teoria evolutiva della società, sganciandole dal preminente interesse religioso che esse avevano avuto nell’opera degli iniziatori. In seguito, la religione ha perso nella considerazione degli studiosi di s. quel posto centrale rispetto all’intera teoria sociale che aveva occupato in precedenza.

Nel corso del Novecento, si è affermato un approccio analitico e quantitativo al quale va ascritta l’ampia elaborazione di indagini collocabili al terzo livello di ricerca inizialmente ricordato, e cioè lo studio sul campo di circoscritti fatti religiosi: ruoli, movimenti, istituzioni, pratica ecc. Nota dominante e ricorrente delle attuali ricerche di s. della religione è l’attenzione all’impatto dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione sulla pratica religiosa e sulla religiosità in genere; le ricerche evidenziano, generalmente, l’effetto secolarizzatore delle condizioni di vita comportate dalla civiltà industriale. Altri temi rilevanti sono l’affermarsi di forme di religiosità laica o di religione civile, e il ritorno o la moda di antiche forme di religiosità.

Un tentativo di restituire alla religione un posto centrale nell’indagine sociologica è stato operato da P.L. Berger e T. Luckmann, che hanno dato vita a una consistente opera teorica connettendo la s. della religione alla s. della conoscenza.

14. S. urbana e rurale


Settori specialistici della s. che hanno come oggetto di analisi le condizioni di vita sociale relative, rispettivamente, agli agglomerati urbani e alle comunità agricole. Tra i campi di applicazione attuali: il problema della stratificazione di classe, i flussi migratori interni, i fenomeni di conurbamento, il localismo, la modernizzazione, la famiglia, l’industrializzazione, la terziarizzazione ecc.

15. Altri settori specialistici


S. del genere Settore che si è sviluppato sotto la spinta dei movimenti femministi e nell’ambito del quale è stata prodotta una mole considerevole di ricerche, con un approccio storico-comparativo, sul rapporto maschile-femminile.

La s. della famiglia è diventata di attualità soprattutto perché la famiglia costituisce sempre più spesso l’unità di riferimento delle politiche sociali del welfare.

Anche la s. della salute e della medicina ha avuto un certo sviluppo in relazione all’espansione e alla crisi dei sistemi sanitari pubblici.

La s. del tempo è disciplina relativamente recente alla quale ha dato un contributo teorico importante N. Elias; si è pure sviluppato un consistente filone di ricerca empirica sugli usi del tempo e sull’organizzazione spazio-temporale della vita sociale.

Una posizione di rilievo, benché ancora minoritaria, è occupata dalla s. storica. Vero è che la s. rimane prevalentemente ‘generalizzante’ e la storiografia procede piuttosto in senso ‘individualizzante’, tuttavia per i sostenitori dell’approccio storico-sociologico i due orientamenti sono da intendere in modo relativo. Se non vuole essere una pura narrazione di fatti, la storiografia non può fare a meno di utilizzare un apparato teorico-concettuale e la s., se non vuole costruire astratti edifici teorici, non può fare a meno di collocare i propri enunciati in un determinato contesto spazio-temporale.

الاثنين، 18 مايو 2015

società Insieme di individui o parti uniti da rapporti di varia natura, tra cui si instaurano forme di cooperazione, collaborazione e divisione dei compiti, che assicurano la sopravvivenza e la riproduzione dell’insieme stesso e dei suoi membri.

ANTROPOLOGIA


Anche nelle sue forme più semplici, l’ordinamento sociale appare determinato da una serie di fattori di varia natura. Rispetto alla distribuzione territoriale, il tipo di s. più semplice è dato dal gruppo domestico o famiglia, occupante una o più abitazioni congiunte; l’unione di più gruppi domestici coresidenti può costituire un villaggio, mentre la città, in senso proprio, non era molto diffusa nelle culture sulle quali, un tempo, si soffermava l’attenzione degli etnologi, anche se occorre ricordare l’America precolombiana messico-andina e gli imperi medievali del Sudan e del Golfo di Guinea.

Le relazioni tra gli individui di uno stesso gruppo sono determinate, a loro volta, da vari fattori: matrimonio, discendenza, coabitazione ecc., che sono alla base della formazione della famiglia. Il sesso determina talora divisione del lavoro, esclusioni dalla vita politica e religiosa; l’età giovanile stabilisce doveri (di lavoro, di servizio militare), quella matura e senile privilegi (comando politico, funzioni sacerdotali); mentre determinate attività artigiane, particolarmente la siderurgia, come pure alcune attività economiche, collegate sovente a fattori etnici, danno vita a divisioni interne del gruppo, quali le classi sociali e le caste.

I sistemi di discendenza, estesi oltre i confini della famiglia, portano alla formazione di gruppi uniti dalla consapevolezza di una comune origine genealogica (➔ discendenza; lignaggio). La loro coesione, oltre che da fattori puramente sociali, dipende anche da motivi religiosi ed economici (orgoglio di una discendenza illustre, conservazione di privilegi ecc.). Sul sistema di discendenza unilineare è basato il clan o stirpe, di solito più vasto del lignaggio e costituito dall’unione di più lignaggi, mentre parlando di gruppo etnico (o tribù) si intende una forma di organizzazione sociopolitica, superiore al gruppo di discendenza (lignaggio o clan), ma meno articolata del chiefdom (potentato, principato) o dello Stato, solitamente fondata sulla condivisione di tratti linguistici e culturali, nonché sull’occupazione di un determinato territorio: non sempre tuttavia queste condizioni si verificano tutte in modo concomitante. Si hanno infatti gruppi, come quelli inuit, dispersi su un territorio vastissimo e non continuo; altri invece, come i Fulbe, che hanno subito i più vari influssi esterni, e così via.

DIRITTO


1. Nozioni generali


Il codice civile italiano prende in considerazione il fenomeno societario nel Libro V, titolo V, avendo riguardo al momento e al modo della sua costituzione, ai rapporti tra soci, e tra soci e terzi, astraendo dall’altro aspetto del fenomeno societario che riguarda la s. come modo d’essere di una impresa, come organizzazione del soggetto imprenditore che può essere un singolo oppure una società.
1.1 Contratto di società
In generale, la s. è definibile come fenomeno associativo regolato da un contratto con il quale si organizzano persone e mezzi in vista dell’esercizio in comune di un’attività economica, allo scopo di dividerne gli utili (art. 2247 c.c.). Tuttavia, è ormai ammessa, per le s. per azioni e per le s. a responsabilità limitata, la costituzione per di s. unipersonali con atto unilaterale. Il contratto su cui poggia la costituzione s. rientra nella categoria dei contratti associativi o con comunione di scopo, nei quali le prestazioni di ciascuno sono dirette al conseguimento di uno scopo comune.

Elementi essenziali del contratto di s. sono: i conferimenti dei soci, lo svolgimento in comune di una attività economica, e il fine di divisione degli utili. I conferimenti sono le prestazioni cui le parti del contratto si obbligano al fine di dotare la s. del capitale di rischio iniziale per lo svolgimento dell’attività di impresa. L’esercizio dell’attività economica è comune a più soggetti quando è preordinato alla realizzazione di un risultato unitario, giuridicamente imputabile al gruppo in quanto tale, prima che ai singoli membri del gruppo stesso. Ultimo elemento è costituito dallo scopo di lucro, che è tipico/">tipico delle s. di persone e di capitali, le quali vengono perciò definite s. lucrative e distinte dalle s. mutualistiche, il cui scopo è invece quello di fornire direttamente ai soci beni, servizi o occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose di quelle che i soci stessi otterrebbero sul mercato.

L’oggetto sociale è la specifica attività che i soci si propongono di svolgere; esso deve essere predeterminato nell’atto costitutivo, ma può essere modificato nel corso della vita della società.
1.2 Classificazioni
In via generale si possono distinguere otto tipi di s.: in primo luogo la s. semplice, la s. in nome collettivo, e la s. in accomandita semplice, le quali sono definibili come s. di persone; in secondo luogo la s. per azioni, la s. in accomandita per azioni e la s. a responsabilità limitata, che rientrano sotto la categoria della s. di capitali; e infine la s. cooperativa e la mutua assicuratrice. In base a tale classificazione si opera una distinzione ulteriore tra s. con personalità giuridica e s. senza personalità giuridica. Rientrano nella prima categoria le s. di capitali e le s. cooperative. Tali s. costituiscono un soggetto giuridico autonomo e distinto dalle persone dei soci, sono dotate di autonomia patrimoniale perfetta rispondono con patrimonio sociale delle obbligazioni contratte per l’esercizio dell’attività l’impresa. I soci, invece, rispondono delle obbligazioni sociali nei limiti del conferimento. Sul piano organizzativo, il riconoscimento della personalità giuridica si esprime nell’attribuzione di specifiche funzioni e competenze a organi distinti, con la conseguenza che al singolo socio non è data la possibilità di esercitare in via diretta poteri di amministrazione e controllo; il socio può esprimere il proprio voto in assemblea nella fase di nomina dei membri degli organi amministrativi e di controllo, sulla base di un criterio capitalistico e, quindi, proporzionato all’ammontare del capitale sociale sottoscritto, ovvero sulla base del principio ‘una testa, un voto’, proprio della s. cooperativa.

La mutua assicuratrice è una forma di s. mutualistica molto diffusa nel settore assicurativo e disciplinata dagli artt. 1884 e 2546-2548 c.c.. nonché dalle disposizioni contenute nel d. legisl. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private). Al pari della s. cooperativa, la mutua assicuratrice è caratterizzata dallo scopo mutualistico, il quale però si atteggia diversamente nelle due forme societarie. Nella mutua la realizzazione dello scopo mutualistico presuppone l’instaurazione del rapporto assicurativo con la mutua stessa, in seguito alla quale si acquista la qualità di socio; nella cooperativa lo scopo mutualistico non è vincolato alla stipulazione del contratto di assicurazione, stipulazione soltanto eventuale e successiva alla costituzione del rapporto sociale.

Alle s. di persone si nega generalmente il riconoscimento della personalità giuridica, in quanto dotate di autonomia patrimoniale imperfetta, nel senso che per le obbligazioni sociali rispondono il patrimonio sociale e i soci, personalmente e illimitatamente, sebbene in modo differente secondo le regole proprie di ciascuna società. Inoltre, in questo caso è assente una distribuzione di funzioni tra organi diversi, essendo l’amministrazione e la rappresentanza della s. affidata soltanto ai soci a responsabilità illimitata.
1.3 Pubblicità
Sul piano della pubblicità, l’iscrizione nel registro delle imprese si atteggia diversamente a seconda della natura dell’attività esercitata. Per le imprese commerciali, l’iscrizione nella sezione ordinaria ha efficacia di pubblicità dichiarativa, nel senso di rendere opponibili a chiunque i fatti e gli atti iscritti, sia pure con le opportune precisazioni. Per le s. di capitali, l’iscrizione ha un’efficacia più propriamente costitutiva, in quanto condizione necessaria per l’acquisto della personalità giuridica e per l’esistenza stessa della società. Al contrario, per le la mancata iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese delle s. in nome collettivo e in accomandita semplice ne comporterà la semplice qualifica di irregolari e non già l’inesistenza, con conseguente applicazione del più gravoso regime giuridico della s. semplice. Infine, per la s. semplice, forma giuridica utilizzabile per l’esercizio di attività economica non commerciale, è prevista l’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese, con gli effetti tipici della pubblicità notizia, a meno che non si tratti di attività agricola, nel qual caso gli effetti sono quelli della pubblicità dichiarativa.
1.4 Controlli
La l. 340/2000 ha modificato la disciplina del controllo preventivo di legalità degli atti sociali sopprimendo, nella fase costitutiva, l’attività di omologazione del tribunale e attribuendo al solo notaio il compito di verificare la sussistenza delle condizioni di legittimità per la costituzione della s. di capitali (art. 2330 c.c., come modificato dal d. legisl. 6/2003). L’art. 2436 c.c. prevede inoltre un primo controllo, obbligatorio, sulla deliberazione di modifica dello statuto da parte del notaio verbalizzante, e un controllo giudiziale, solo eventuale, sollecitato dagli amministratori quando il notaio ritiene non adempiute le condizioni stabilite dalla legge; in seguito a tale ultimo controllo, che si svolge secondo le regole del procedimento di omologazione, il tribunale, se ne sussistono le condizioni, può ordinare l’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese, divenendo produttiva di effetti.

2. S. di persone


La s. semplice (s.s.) è tipo di s. di persone, disciplinata dagli artt. 2251-2290 c.c., che può avere per oggetto soltanto l’esercizio di attività non commerciale. Per la costituzione della s. semplice non occorre rispettare una particolare forma, salvo quella richiesta dalla natura dei beni conferiti. Tuttavia, la previsione di un obbligo di iscrizione del contratto sociale una sezione speciale del registro delle imprese, con efficacia di pubblicità legale, esclude di fatto la possibilità di costituzione in forma orale o per comportamenti concludenti.

Rapporti tra soci. - Ciascun socio è obbligato ad eseguire i conferimenti determinati nel contratto sociale. Oggetto del conferimento nella s. semplice può essere qualunque bene suscettibile di valutazione economica, purché utile per il conseguimento dell’oggetto sociale. Salvo diversa previsione dell’atto costitutivo, i soci sono tenuti ad effettuare conferimenti di pari valore. La partecipazione agli utili e alle perdite si presume proporzionale ai conferimenti e ciascun socio ha diritto a percepire la sua parte di utili, dopo l’approvazione del rendiconto. L’amministrazione delle s. semplici spetta normalmente a ciascun socio, disgiuntamente degli altri. In questo caso, ciascun socio amministratore può opporsi alle operazioni di gestione che un altro vuole compiere e prima che questa sia realizzata. Nel caso, sull’operazione decide la maggioranza dei soci, calcolata secondo la parte di utili attribuita a ciascun socio. Le s. semplici possono, però, optare per un regime di amministrazione congiuntiva, affidata a più soci. In tal caso, il compimento delle operazioni di gestione richiede il consenso unanime dei soci amministratori, salvo che, per alcune operazioni, il contratto s. non preveda una votazione a maggioranza. In ogni caso, residua in capo a ciascun amministratore il potere di compiere, anche individualmente, atti di gestione, nel caso di sia urgenza di evitare un grave danno alla società. I soci che non partecipano all’amministrazione hanno il diritto di ottenere notizia delle operazioni di gestione realizzate dalla s., di consultare i documenti relativi all’amministrazione e di ottenere un rendiconto annuo.

Rapporti con i terzi. - La s. acquista diritti, assume obbligazioni e sta in giudizio per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza. Salvo diversa pattuizione, la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore e si stende a tutti gli atti rientranti nell’oggetto sociale. Per le obbligazioni sociali risponde la s. con il proprio patrimonio e, in via sussidiaria, i soci, con tutto il loro patrimonio personale presente e futuro. Tale regime di responsabilità dei singoli può essere circoscritto al solo ammontare conferito per i soci non investiti del potere di rappresentanza della s. e purché la deroga risulti da un apposito patto sociale portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, quale per es. l’iscrizione nel registro delle imprese. Il creditore particolare del singolo socio può far valere i suoi diritti sulla quota di utili spettanti al debitore, può compiere tutti gli atti conservativi della quota e, se gli altri beni del debitore sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti, può anche chiedere la liquidazione della quota del suo debitore.

Lo scioglimento della società. - La s. semplice si scioglie per decorso del termine, per conseguimento dell’oggetto sociale o impossibilità sopravvenuta di conseguirlo, per volontà di tutti i soci, per il venir meno della pluralità di soci e sempre che questa non sia ricostituita nel termine di sei mesi, e per le altre cause previste nel contratto sociale. Il verificarsi di una causa di scioglimento determina l’apertura della fase di liquidazione, con nomina di uno o più liquidatori da parte dei soci o, in mancanza di accordo, da parte del presidente del tribunale. Estinti i debiti sociali, l’eventuale attivo residuo viene ripartito tra i soci in proporzione alla partecipazione di ciascuno ai guadagni.


La s. in nome collettivo (s.n.c.) è un modello di s. di persone utilizzabile per svolgere attività sia commerciale sia non commerciale. È disciplinata dagli artt. 2291-2312 c.c. e, per quanto non previsto, dalle norme dettate per la s. semplice. Caratteristica della s. in nome collettivo è che tutti i soci rispondono personalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, quando il patrimonio della s. risulti insufficiente a coprire i debiti contratti per l’esercizio dell’attività di impresa. Tuttavia, i soci possono convenire che alcuni di essi siano esclusi dal regime di responsabilità illimitata; tale patto, però, non è efficace nei confronti dei terzi. Poiché l’atto costitutivo della s. in nome collettivo indica sempre un termine di durata della s., i creditori del singolo socio non possono chiedere la liquidazione della quota del socio debitore, finché tale termine non sia maturato; tuttavia, essi possono opporsi alla delibera di proroga della s. o, in caso di proroga tacita, possono chiedere in ogni momento la liquidazione della quota del socio debitore. La ragione sociale della s. in nome collettivo deve contenere l’indicazione di uno o più soci e del tipo di rapporto sociale.

L’atto costitutivo deve essere depositato, a cura degli amministratori, presso il registro delle imprese per l’iscrizione, nel termine di 30 giorni dalla stipulazione. Se gli amministratori non provvedono, può farlo il singolo socio a spese della società. La mancata iscrizione non determina l’inesistenza della s., ma una irregolarità (si parla, in questo caso di s. irregolare) che determinerò l’applicazione della disciplina– meno favorevole per i soci – della s. semplice. L’amministrazione, salvo diversa previsione dell’atto costitutivo, spetta a ciascun socio.

Sono previsti obblighi di non concorrenza in capo a tutti i soci, i quali non possono esercitare per conto proprio o altri un’attività concorrente con quella della s. né partecipare, in qualità di socio illimitatamente responsabile, ad altra s. concorrente, a meno che non di sia il consenso degli altri soci.


La s. in accomandita semplice (s.a.s.) è una s. di persone, disciplinata agli artt. 2313-2324 cc. e caratterizzata dalla presenza di due categorie di soci, gli accomandatari e gli accomandanti. I primi rispondono solidalmente e illimitatamente delle obbligazioni sociali; gli altri rispondono limitatamente alla quota conferita. L’amministrazione della s. può essere affidata soltanto ai soci accomandatari, i quali hanno i diritti e i doveri dei soci di s. in nome collettivo. I soci accomandanti, invece, non possono interferire con l’amministrazione della s. né possono compiere specifici affari per conto della s., a meno che non siano muniti di procura speciale per singoli affari, conferita dagli amministratori. Il socio accomandante che contravviene al divieto di immistione nella gestione dell’impresa è responsabile illimitatamente e solidalmente verso i terzi per le obbligazioni sociali. Eguale estensione di responsabilità si realizza in capo al socio accomandante che consenta l’inserimento del suo nome nella ragione sociale, la quale, per previsione normativa, deve contenere il nome di almeno un socio accomandatario e l’indicazione del tipo sociale. La quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile a causa di morte e può essere ceduta col consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale sociale. La s. in accomandita semplice si scioglie per le cause previste per la s. semplice e per il venir meno di una delle due categorie di soci, se non integrata entro sei mesi. Se vengono a mancare tutti i soci accomandatari, gli accomodanti nominano un amministratore provvisorio, che non assume la qualità di socio accomandatario.

3. S. di capitali


La s. per azioni (s.p.a.) è una s. di capitali disciplinata agli artt. 2325 ss. c.c. e caratterizzata da autonomia patrimoniale perfetta, perciò risponde delle obbligazioni sociali solo con il proprio patrimonio. Il capitale minimo per la costituzione di una s. per azioni è di 120.000 euro. I soci sono obbligati solo a eseguire i conferimenti promessi (denaro, crediti, beni in natura, ma non prestazioni d’opera e servizi) che costituiscono la misura/">misura del loro rischio d’impresa. La partecipazione sociale è rappresentata da azioni, partecipazioni-tipo omogenee e standardizzate, tutte di uguale valore, che conferiscono ai loro possessori uguali diritti. Le azioni sono, di norma, liberamente trasferibili e circolano attraverso documenti assoggettati alla disciplina dei titoli di credito. La s. per azioni ha un’organizzazione di tipo corporativo, basata sulla necessaria presenza di una pluralità di organi. Nel sistema tradizionale, tali organi sono assemblea, amministratori e collegio sindacale, il cui funzionamento è dominato dal principio maggioritario. Con la riforma societaria del 2003 sono stati introdotti due ulteriori sistemi di amministrazione alternativi a quello tradizionale, basato sulla separazione tra amministrazione e controllo. Il sistema dualistico presenta un consiglio di gestione, cui spetta la gestione dell’impresa, e un consiglio di sorveglianza, cui è affidato, tra l’altro, il compito di nominare e revocare i componenti del consiglio di gestione. Il sistema monistico, invece, presenta un consiglio di amministrazione, cui spetta la gestione dell’impresa, al cui interno è previsto un comitato per il controllo sulla gestione. Con l’iscrizione nel registro delle imprese, la s. acquista personalità giuridica; prima di questo momento, il contratto produce effetti solo fra le parti; per quanto riguarda i terzi, per le operazioni compiute prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente responsabili coloro che hanno agito, il socio unico fondatore o i soci che hanno deciso, autorizzato o consentito il compimento dell’operazione. La disciplina delle s. per azioni è diversa a seconda che queste facciano ricorso o meno al mercato del capitale di rischio. Nel primo caso, si parla di s. “aperte”, nel secondo, di s. “chiuse”.



Le s. con azioni quotate in mercati regolamentati sono una particolare categoria di s. per azioni e, segnatamente, delle s. per azioni aperte, quelle, cioè, che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Per le s. con titoli quotati in mercati regolamentati, sono previste regole specifiche e più severe, al fine di garantire la trasparenza degli assetti proprietari. Esse sono sottoposte al controllo della CONSOB che ne rileva le partecipazioni, ne segue le variazioni, in modo che siano date al pubblico le comunicazioni necessarie ad assicurargli un’adeguata informazione sull’assetto e il peso dei soci. Anche i patti parasociali aventi a oggetto l’esercizio del voto o la preventiva consultazione in vista del suo esercizio, i limiti al trasferimento delle azioni, l’influenza dominante e l’acquisto di azioni emesse dalla s. o dalla sua controllante, devono essere comunicati alla CONSOB, pubblicati mediante avviso sulla stampa e depositati presso il registro delle imprese.

Tale s. può emettere azioni di risparmio, prive di diritto di voto, ma assistite da particolari privilegi di natura patrimoniale, per non più della metà del capitale sociale. La regolarità della gestione e del bilancio è accertata da una s. di revisione, che ha il compito di controllare la regolare tenuta della contabilità sociale, la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili nonché di verificare che i bilanci corrispondano alle risultanze delle scritture contabili e degli accertamenti eseguiti e che siano conformi alle norme che li disciplinano. Nel caso di s. quotate, la s. di revisione deve essere iscritta in un apposito albo tenuto dalla CONSOB, previa verifica dei requisiti di indipendenza e di idoneità tecnica; nel caso di s. aperte non quotate, il revisore deve essere iscritto in un apposito registro istituito presso il ministero della Giustizia. Al termine di ogni esercizio, la s. di revisione esprime un giudizio sul bilancio che viene formalizzato in una relazione depositata presso la sede della s., unitamente al bilancio, durante i 15 giorni che precedono l’assemblea e finché il bilancio non è approvato. La s. di revisione riceve l’incarico dall’atto costitutivo o, successivamente, dall’assemblea della s., sentito il collegio sindacale; l’incarico dura tre esercizi e non può essere rinnovato più di due volte alla stessa società.

La s. in accomandita per azioni (s.a.a), disciplinata dagli art. 2452-61 c.c., è una s. di capitali che presenta, come la s.a.s., due categorie di soci: i soci accomandatari, i quali sono di diritto amministratori della s. e rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, e i soci accomandanti, che invece rispondono nei limiti della quota conferita. Alla s.a.a. – che in Italia risulta utilizzata, in casi non frequentissimi, da importanti imprese a caratterizzazione familiare – si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni sulla s. per azioni.

 La s. a responsabilità limitata (s.r.l.) è una s. di capitali, disciplinata dagli artt. 2462-83 c.c., che si costituisce con un capitale sociale di almeno 10.000 euro. Le partecipazioni dei soci non possono essere rappresentate da azioni né costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari. I conferimenti possono riguardare tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica. Se in denaro, il conferimento deve farsi con versamento del 25% dello stesso presso una banca o mediante la stipula di polizza assicurativa o di fideiussione bancaria. È consentito il conferimento di prestazioni d’opera o di servizi che è vietato, invece, nelle s. per azioni.

L’organizzazione interna della s. a responsabilità limitata è più flessibile di quella delle s. per azioni. La riforma societaria del 2003 ha notevolmente valorizzato l’autonomia statutaria nella definizione delle funzioni e nel funzionamento dell’assemblea (art. 2479, co. 2), nonchè nella ripartizione di competenze tra assemblea e amministratori (art. 2479, co. 1). Inoltre, la nomina del collegio sindacale è solo eventuale (art. 2477).

La riforma del 2003 ha previsto la facoltà, per le s. a responsabilità limitata, di emettere titoli di debito (art. 2483).

4. S. cooperative


Sono s. a capitale variabile. Si distinguono in s. cooperative a mutualità prevalente e altre s. cooperative, a seconda che esistano o meno nello statuto della s. clausole limitative della distribuzione di utili o riserve ai soci, e l’attività sia svolta prevalentemente a favore di quest’ultimi.

Le s. cooperative si differenziano, pertanto, dalle altre s. di capitali proprio perché non sono votate a raggiungere un utile da distribuire fra i soci, ma hanno lo scopo di fornire beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai soci, a condizioni più vantaggiose di quelle offerte dal mercato.

Le s. cooperative di entrambe le tipologie sono tenute a iscriversi, oltre che nel registro delle imprese, in appositi albi tenuti a cura del ministero dello Sviluppo economico. Il modello organizzativo prescelto, nonché la relativa disciplina, possono ricalcare quelli della s. per azioni o della s. a responsabilità limitata, a seconda della volontà dei soci, salvo per le cooperative con meno di 9 soci, per le quali è obbligatorio il modello della s. a responsabilità limitata.

Per le obbligazioni contratte dalla s. risponde solo la stessa con il proprio patrimonio, e ciò spinge le s. cooperative a reperire ulteriori capitali dai soci sovventori, non interessati alle prestazioni mutualistiche, ma al rendimento finanziario del conferimento. La presenza dei soci sovventori è tuttavia temperata da alcune disposizioni di legge che evitano che questi possano prendere il sopravvento nella gestione della società.

Tra gli elementi peculiari delle s. cooperative si possono annoverare la variabilità del capitale, che rende non necessario un intervento di modifica dello statuto quando vari la compagine sociale; la necessità di una deliberazione da parte degli amministratori per rendere efficace l’ammissione o l’esclusione del socio; il criterio del voto capitario, per cui ogni socio, indipendentemente dall’ammontare della propria partecipazione sociale, ha diritto ad esprimere un voto in assemblea; la previsione di vigilanza dell’autorità governativa, al fine di assicurare il regolare funzionamento amministrativo e contabile della s. cooperativa.

5. Altri modelli significativi


A vario titolo, meritano segnalazione alcune ipotesi di s. rilevanti nell’esperienza degli operatori economici.

La s. unipersonale è una variante della s. per azioni o della s. a responsabilità limitata, caratterizzata dalla presenza di un unico socio. La s. unipersonale può essere tale dal momento della costituzione, che avviene con atto unilaterale anziché con contratto oppure può diventare unipersonale per effetto della riunione della partecipazioni in capo ad unico socio. L’unico socio può beneficiare del regime di responsabilità limitate, a patto che siano adempiuti oneri specifici: integrale versamento dei conferimenti, al momento della sottoscrizione, nel caso di unipersonalità originaria, oppure nel termine di novanta giorni dal venir meno della pluralità di soci; deposito per l’iscrizione nel registro delle imprese di una dichiarazione contenente l’indicazione del nome o della denominazione dell’unico socio, luogo e data di nascita ovvero Stato di costituzione, domicilio, sede o cittadinanza dell’unico socio.


 Composte da imprenditori, al fine di costituire un’organizzazione comune per la disciplina o lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese, le s. consortili possono assumere la forma di qualsiasi s. di persone o di capitali, fuorché di s. semplice (art. 2615 ter c.c.). Stando inoltre alla dottrina dominante, possono assumere anche la forma di s. cooperativa se si prevede espressamente nell’atto costitutivo l’esclusiva finalità consortile e si impone ai soci l’obbligo di versare contributi periodici in denaro (diversi dai conferimenti) al fine di dotare l’impresa delle risorse necessarie per il suo funzionamento. Funzione tipica della s. consortile è quella di produrre beni o servizi necessari agli imprenditori-soci e di soddisfarne il fabbisogno per mezzo di singoli rapporti di scambio tra s. e socio. L’atto costitutivo della s. può contenere specifiche pattuizioni volte ad adattare la struttura societaria prescelta alla finalità consortile perseguita. Tra queste si segnalano: l’obbligo per i soci di versare alla s. contributi periodici in denaro, diversi dai conferimenti; il divieto di ripartizione degli utili tra i soci; oppure la previsione di particolari condizioni di ammissione di nuovi soci o di speciali cause di recesso o esclusione di quelli già consorziati.

La s. con partecipazione pubblica è s. di capitali di diritto comune, di cui lo Stato o altro ente pubblico detiene una partecipazione che può essere totalitaria (azionariato di Stato), di maggioranza o di minoranza (s. mista); in tutti i casi l’impresa si presenta formalmente come un’impresa societaria privata e soggiace alla relativa disciplina in quanto i tratti pubblicistici si fermano a livello di enti di gestione, senza concernere le strutture operative attraverso le quali agiscono. Sono sottoposti al diritto comune non solo i rapporti esterni di impresa, ma anche i rapporti di organizzazione. La disciplina è quella dettata in generale dal codice civile in materia di s. e impresa, e quella specifica relativa al tipo societario prescelto. Si applicano inoltre le norme sul fallimento. L’unica deroga, rispetto alla disciplina civilistica, è quella che prevede la possibilità che lo statuto conferisca all’ente pubblico la facoltà di nominare e revocare amministratori e sindaci in modo proporzionale alla partecipazione posseduta.

Le s. tra professionisti, pur presentando un carattere economico, non sono, di norma, considerate attività imprenditoriali. Si tratta, più propriamente, di associazioni professionali non del tutto sovrapponibili al modello di società. La prestazione professionale, infatti, non è strumentale al perseguimento del fine economico della s., diverso rispetto al risultato economico dello svolgimento di attività professionale, ma lo scopo dell’associazione, secondo la dottrina prevalente, coincide con il fine economico dell’attività professionale. La disciplina legislativa del fenomeno è in costante evoluzione. Si segnalano, tra gli altri la l. 266/1997, che abroga l’art. 2 della l. 1815/1939, sul divieto di esercizio in forma associata di professioni, ma non l’art. 1, che disciplina l’attività professionale organizzata secondo lo schema associativo; il d. legisl. 96/2001, sulla costituzione di s. tra avvocati; la l. 248/2006, che consente a s. di persone e associazioni tra professionisti di fornire servizi professionali interdisciplinari, anche se un professionista non può partecipare a più di una società. Inoltre, il socio è personalmente responsabile per la prestazione resa.

La s. fiduciaria è disciplinata dalla l. 1966/1939, che la definisce come s. che si propone di assumere l’amministrazione dei beni per conto di terzi, l’organizzazione e la rappresentanza contabile di aziende e la rappresentanza dei portatori di azioni e di obbligazioni ed esercita tali attività in forma di impresa. In via generale, le s. fiduciarie svolgono attività di amministrazione di beni per conto di terzi e tale attività possono esercitare provvedendo alla conservazione del patrimonio ed esercitandone i relativi diritti, oppure disponendo del medesimo attraverso la sostituzione dei singoli beni al fine di valorizzarlo. La gestione di patrimoni mobiliari è consentita solo a società fiduciarie denominate società di intermediazione mobiliare (s.i.m.).

6. Gruppi di società


L’espressione indica un fenomeno generato dall’autonomia privata e caratterizzato dall’unione di più s., giuridicamente distinte l’una dall’altra ma assoggettate tutte a una direzione unitaria, al fine di realizzare un interesse comune. I gruppi possono articolarsi in senso orizzontale e paritetico (cosiddetti gruppi paritetici) o in senso verticale, con legame di subordinazione dell’una s. all’altra (gruppi verticali). Sebbene il codice civile non contenga una definizione di gruppo di s., la legislazione speciale è intervenuta, in più occasioni, a risolvere gli aspetti patologici collegati a tale forma organizzativa, dettando una disciplina specifica per i gruppi del settore bancario, assicurativo e finanziario. La riforma del 2003 ha predisposto un sistema di regole dirette a conferire giuridica rilevanza all’attività di direzione e coordinamento esercitata da una s. o ente sulle s. dirette e coordinate, al fine di individuare la responsabilità della s. o dell’ente che abbia agito a danno dei soci e dei creditori delle s. controllate; la responsabilità non sussiste se il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo (teoria dei cosiddetti vantaggi compensativi). È stato previsto un sistema di pubblicità volto a rendere trasparenti i rapporti tra le s. del gruppo, anche attraverso l’istituzione di una apposita sezione del registro delle imprese. L’attività di direzione e coordinamento si presume esercitata dalla s. o ente che controlla le altre o che redige il bilancio consolidato. Il gruppo può essere formato anche da s. aventi sede in Stati diversi e, perciò sottoposte a discipline giuridiche diverse. Il gruppo di imprese societario multinazionale pone il problema di coordinare l’unità dell’azione imprenditoriale con la pluralità di centri autonomi di imputazione, ciascuno dei quali agisce in virtù di logiche che rispondono alla necessità di sfruttare e gestire in maniera integrata le risorse delle quali dispongono i mercati nei quali operano. Alla s. capogruppo spetta il compito di indirizzare l’attività delle controllate verso un fine comune, sfruttando i vantaggi che possono derivare dall’applicazione di legislazioni differenti.

7. S. estere e modelli europei


Le s. costituite all’estero sono, di norma, disciplinate dalla legge dello Stato in cui è stato perfezionato il procedimento di costituzione. Tuttavia, se tali s. operano essenzialmente in Italia o stabiliscono in Italia la propria sede amministrativa, soggiacciono integralmente alla disciplina nazionale, anche con riguardo alle regole di costituzione e di estinzione. Al contrario, se tali s. stabiliscono in Italia una o più sedi secondarie con rappresentanza stabile, sono soggette, per ciascuna sede, alla legge italiana per ciò che riguarda la pubblicità degli atti sociali, l’esercizio dell’impresa e l’osservanza di particolari condizioni (art. 2507 ss. c.c.). Con riguardo a tali aspetti, si applica in via analogica la disciplina delle s. per azioni, se le s. estere sono costituite secondo un tipo legale diverso da quelli previsti dalla disciplina nazionale. In ogni caso, tali s. devono pubblicare, con le forme previste dalla legge nazionale per la pubblicità degli atti sociali, i dati identificativi delle persone che le rappresentano stabilmente in Italia, con indicazione dei relativi poteri. Fino all’adempimento di queste formalità, per le obbligazioni sociali rispondono solidalmente e illimitatamente coloro che agiscono in nome della società.

Nell’ordinamento dell’Unione Europea (UE), la s. costituita in uno Stato membro può operare, in regime di libertà di stabilimento o in regime di libera prestazione di servizi, nell’intero territorio dell’UE. Il diritto di stabilimento consente alla s. di trasferire la propria sede in uno Stato membro diverso da quello di origine, oppure di procedere all’apertura di una sede secondaria, per esercitarvi l’attività economica con carattere di stabilità e continuità. Il regime di libera prestazione dei servizi consente altresì alla s. avente nazionalità di uno Stato membro di esercitare temporaneamente la propria attività nello Stato membro ove la prestazione è fornita, alle stesse condizioni previste da tale Stato per le altre società. Quando, invece, la s. intende operare in uno Stato terzo (ossia non membro dell’UE), essa è soggetta alle leggi dello Stato in cui stabilisce la propria sede.

La s. europea. - Disciplinata con il regolamento 2157/2001/CE (entrato in vigore nel 2004 e volto a facilitare lo svolgimento dell’attività d’impresa alle s. operanti in un contesto sovranazionale), la s. europea assume la forma di una s. per azioni, che deve essere conforme non solo allo statuto societario contenuto nel citato regolamento, ma anche alle disposizioni nazionali degli Stati membri in materia di s. per azioni. Ha personalità giuridica e deve possedere un capitale di almeno 120.000 euro.

Lo statuto contempla quattro modi di costituzione: fusione, costituzione di una holding/">holding, costituzione di una s. europea affiliata, trasformazione di una s. per azioni già esistente. La sede della s. europea può essere trasferita in un altro Stato membro senza che ciò comporti lo scioglimento o la costituzione di una nuova società. Nel 2001 è stata adottata la direttiva 86/2001/CE, sul coinvolgimento dei lavoratori nella gestione, attuata in Italia con il d. lgs. 188/2005.

La s. cooperativa europea. - La s. cooperativa europea, disciplinata con regolamento 1435/2003/CE, ha scopo mutualistico. Il capitale sociale sottoscritto deve essere almeno di 30.000 euro ed è rappresentato dalle quote dei soci; la s. cooperativa europea può essere costituita da almeno cinque persone fisiche residenti in almeno due Stati membri, ma anche da s. e da altre entità di diritto pubblico e privato che abbiano la sede in almeno due Stati membri diversi o siano soggette alla legge di due Stati diversi. La direttiva 72/2003/CE disciplina il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione.

8. Profili tributari


Nel sistema tributario nazionale sono soggetti alle imposte sul reddito delle s. anche le s. e gli enti non residenti per i redditi prodotti in Italia. A tal proposito, infatti, l’art. 73, co. 1, lett. d, del d.p.r. 917/1986 (testo unico delle imposte sui redditi, t.u.i.r.) contempla anche quei soggetti che non hanno, nel territorio dello Stato, né la sede legale né la sede amministrativa, né l’oggetto principale della loro attività. A tali soggetti risulta applicabile uno specifico regime di determinazione dell’imponibile, al quale sono dedicati il capo IV e il capo V del titolo II del t.u.i.r., rispettivamente riferiti alle s. ed enti commerciali non residenti e agli enti non commerciali non residenti. La qualificazione nell’una o nell’altra categoria dovrà condursi unicamente «in base all’attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato», e non già, com’è invece previsto per i residenti in Italia, sulla base dell’atto costitutivo o dello statuto. In ogni caso, il reddito complessivo imponibile ai fini IRES è formato, ai sensi degli art. 151 e 153 t.u.i.r., dai soli redditi prodotti nel territorio dello Stato, la cui individuazione deve essere operata sulla base dei medesimi criteri di localizzazione previsti dall’art. 23 del t.u.i.r. per la tassazione delle persone fisiche non residenti. Particolare attenzione merita la localizzazione del reddito d’impresa, che ai sensi dell’art. 23 cit. si considera prodotto nel territorio dello Stato se derivante da un’attività ivi esercitata mediante stabili organizzazioni. La regola subisce però un’eccezione per le plus;valenze e le minusvalenze di beni destinati, o comunque relativi, ad attività commerciali esercitate nel territorio dello Stato, le quali, ai sensi degli art. 151, co. 2, e 153, co. 2, sono considerate imponibili in Italia ancorché non conseguite per il tramite della stabile organizzazione presente nel territorio dello Stato. Nel caso di una s. o di un ente non residente commerciale, la presenza di una stabile organizzazione sul territorio dello Stato, oltre ad assumere la riferita funzione di localizzazione, ha l’effetto di rendere utilizzabili, ai fini della determinazione del reddito imponibile in Italia, le medesime regole previste per le s. commerciali residenti, che si applicano «sulla base di apposito conto economico relativo alla gestione delle stabili organizzazioni e alle altre attività produttive di redditi imponibili in Italia». In assenza di una stabile organizzazione, invece, il co. 2 dell’art. 152, prevede la regola del cosiddetto trattamento isolato dei redditi, secondo cui, nonostante la ‘commercialità’ del soggetto, i proventi strutturalmente ascrivibili a categorie reddituali diverse da quelle d’impresa non subiscono il noto processo di riqualificazione, ma devono essere determinati «secondo le disposizioni del titolo I, relative alle categorie nelle quali rientrano». Per quanto riguarda gli enti non commerciali non residenti, invece, la determinazione del reddito deve essere in ogni caso operata sulla base delle regole del titolo I del t.u.i.r, relative alla determinazione del reddito delle persone fisiche.

Il settore immobiliare è oggetto di notevole attenzione nel sistema tributario, in quanto particolarmente idoneo a fenomeni elusivi ed evasivi, ai fini dell’imposizione sia diretta sia indiretta. Nell’ambito delle imposte sul reddito, le s. immobiliari – s. il cui oggetto sociale è costituito dalla costruzione e/o dall’acquisto e/o dalla vendita di beni immobili, le s. di leasing che acquisiscono beni immobili e li locano, le s. di investimento immobiliare, le s. che concedono in locazione beni immobili, le s. di godimento – producono reddito d’impresa. I cosiddetti proventi immobiliari (art. 90 t.u.i.r.), ovvero i redditi prodotti da immobili non strumentali all’esercizio dell’impresa, né rientranti tra i beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività d’impresa, concorrono a formare il reddito, secondo le disposizioni relative ai redditi fondiari (se gli immobili sono situati nel territorio dello Stato), o ai redditi diversi (se gli immobili sono situati all’estero). Ai fini delle imposte sul reddito, dell’IRAP e dell’IVA, le s. immobiliari di puro godimento (che non presentano cioè un’effettiva attività d’impresa secondo parametri definiti dalla legge) possono rientrare nella disciplina delle s. non operative (prevista dall’art. 30 l. 724/1994) ed essere quindi assoggettate a un regime particolarmente sfavorevole di imposizione avente una finalità antielusiva. Particolari disposizioni sono anche previste in materia di IVA (d.p.r. 633/1972, art. 10, co. 1, 8, 8 ter).

9. Reati in materia di società


Gruppo di reati, previsti e disciplinati soprattutto dal codice civile, collegati all’esercizio di s. di gruppi societari.

Tra i principali, il reato di false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.) si configura quando gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di una s. espongono – nei bilanci o nelle comunicazioni sociali previste dalla legge – fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, ovvero omettono informazioni obbligatorie, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della s. o del gruppo al quale essa appartiene in modo idoneo a indurre in errore i destinatari, ovvero posta in essere con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto. La punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5%, ovvero una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%. In ogni caso, il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta. Si noti che la fattispecie in esame è un reato di pericolo che si perfeziona con la semplice condotta descritta nella previsione normativa senza necessità che si verifichi effettivamente un danno. Strutturalmente simile è il reato di false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori (art. 2622 c.c.), che si differenzia, in quanto reato di danno, per l’effettività del pregiudizio recato a soci e creditori.

Previsto e disciplinato dall’art. 2637 c.c., art. 501 c.p. e art. 185 del d. legisl. 58/1998 (testo unico della finanza, t.u.f.), il delitto di aggiotaggio punisce la condotta di colui che diffonde notizie false ovvero pone in essere operazioni simulate o in genere altri artifici concretamente idonei ad alterare sensibilmente il prezzo di strumenti finanziari, siano essi quotati (art. 185 t.u.f.) o meno (art. 2637 c.c.), ovvero a incidere in maniera significativa sull’affidamento che il pubblico ripone nella stabilità di banche o gruppi bancari (art. 2637 c.c.).

Con la fattispecie di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638 c.c.) il legislatore ha inteso sanzionare la condotta degli amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e/o liquidatori di s., ovvero di altri enti, nonché di tutti gli altri soggetti che sono sottoposti alle autorità pubbliche di vigilanza, ovvero sono tenuti a obblighi nei loro confronti, i quali nelle comunicazioni da rivolgersi ex lege alle autorità di vigilanza: a) espongono fatti non corrispondenti al vero; b) occultano in tutto o in parte, con altri mezzi fraudolenti, fatti che avrebbero dovuto comunicare, concernenti sempre la situazione economica, finanziaria e/o patrimoniale delle s. o degli enti sottoposti alla attività di vigilanza. La norma punisce altresì la condotta dei predetti soggetti, i quali, in qualsiasi modo, ostacolino l’esercizio delle funzioni di vigilanza delle preposte autorità pubbliche.

FILOSOFIA


1. L’uomo animale sociale-politico


Il concetto di s. si distingue tardi da quello di Stato e, più in generale, di politica. Nel mondo antico non emerge ancora il problema della distinzione tra legami sociali e legami statali: si riferiscono contemporaneamente alla s. e allo Stato le riflessioni di Aristotele (Politica) che considera la dimensione politico-sociale come pertinente «per natura» all’uomo e per il quale la πόλις (per i latini civitas) non si distingue formalmente dalle più elementari forme di κοινωνίαι (o societates). Sofisti, cinici, epicurei considerano la πόλις risultante da una convenzione che altera l’originario e naturale stato dell’umanità. Un modello diverso è rappresentato dall’ideale stoico del cosmopolitismo (inteso come comunità dell’intero genere umano), che consente di dissociare l’aspetto sociale da quello statuale, e quindi di considerare la s. come indipendente dall’organizzazione politica.

L’impostazione aristotelica segna la riflessione politica fino al Seicento. Ancora per Grozio l’uomo è «per natura» un essere razionale e sociale, cioè atto a vivere in una s. razionalmente organizzata.

2. Stato di natura e s. civile


T. Hobbes per primo afferma che l’uomo non è socievole per natura, ma lo diventa in seguito a un ragionamento e a un calcolo di vantaggi: una s. pacifica offre infatti all’individuo le maggiori opportunità di sopravvivenza. La s. è quindi una costruzione artificiale, che nasce da un atto volontario, attraverso un contratto: il pactum unionis tramite la sottomissione a un potere centrale dà origine alla vita sociale e politica, e alla pace: per Hobbes s. e Stato coincidono; non esiste socializzazione fuori dallo Stato e se si dissolve lo Stato si dissolve anche la s. e gli individui tornano nello stato di natura.

J. Locke mette in luce (1690) come nello stato di natura (almeno in una prima fase), e dunque prima di ogni forma di patto, esista già una vita sociale: l’uomo naturale conosce le forme di associazione (uomo-donna, padre-figli e padrone-servo) comprese nell’istituto della «famiglia», esiste la proprietà privata, sono possibili commerci e, una volta introdotta la moneta, anche l’accumulazione di ricchezza. La discriminante tra stato di natura e s. politica è data dall’assenza o presenza di un potere centrale in grado di dirimere le controversie e far rispettare le leggi. Lo stato naturale si delinea così come il luogo dei rapporti non politici, mediati da legami familiari, o di interesse e di reciproco aiuto. Inoltre, lo stato di natura precedente la s. politica è già uno stato morale: l’individuo appare infatti titolare di diritti innati e inalienabili, che egli non deriva dalla s. e quindi dal rapporto storico con gli altri, ma dalla sua spiritualità e razionalità. A tale condizione l’istituzione della s. civile mediante il contratto non aggiunge nulla se non la legge positiva che garantisce e rende sicuro l’esercizio dei diritti naturali. La s. quindi si presenta non come un fine, ma come un mezzo per difendere, con la forza comune, la persona e i beni di ogni singolo associato. Il contratto non produce un’associazione reale: si limita a creare un ordine formale che consolidi le prerogative dei singoli e renda possibile la coesistenza degli arbitri privati.

Per J.-J. Rousseau, la condizione naturale dell’uomo si presenta non come un originario stato di innocenza ma di semibestialità, e la s. politica o Stato arriva alla fine di un lungo processo di snaturamento e di civilizzazione, e nello stesso tempo di corruzione e decadenza morale. L’uomo naturale, inconsapevole e felice, non è un soggetto morale né un essere razionale, bensì una creatura solitaria che non conosce né desidera la s. perché autonomo e autosufficiente. Il bisogno lo spinge a cercare gli altri e a diventare un essere socievole e razionale. La s. civile si sviluppa così attraverso una serie di passaggi, che portano gli uomini a intrecciare rapporti, commerci e interessi. Attraverso queste relazioni di scambio con gli altri l’uomo può sviluppare le facoltà propriamente umane che possedeva originariamente solo in potenza. L’insicurezza dei propri possessi, da un lato, e la povertà, dall’altro, spingeranno al patto iniquo e alla nascita della s. politica, che però si limiterà a istituzionalizzare le disuguaglianze di fatto. Di qui la necessità di un nuovo contratto sociale che ponga le basi di una nuova s. politica.

I. Kant sottolinea come l’uomo sia spinto verso la s. da tendenze diverse e opposte: nello stato di s., l’uomo «sente di poter meglio sviluppare le sue naturali disposizioni», ma «ha del pari in sé la qualità antisociale di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse, per cui si aspetta resistenza da ogni parte e sa che egli deve da parte sua tendere a resistere contro gli altri». Questa «insocievole socievolezza», viene indicata da Kant come uno dei più potenti fattori di sviluppo storico e di progresso, perché stimola l’uomo a sviluppare tutte le sue capacità. È necessario però che sia disciplinata da regole che ne assicurino il funzionamento: solo all’interno della s. civile, regolata da «leggi esterne» l’antagonismo degli individui può realizzarsi in modo tale che la libertà di ognuno può coesistere con la libertà di tutti gli altri.

3. La distinzione fra s. e Stato


Chi contribuisce soprattutto a distinguere il concetto di s. da quello di Stato è G.W.F. Hegel, che subordina il primo al secondo, considerando la s. civile/borghese come una fase imperfetta o preparatoria dello Stato (la s. politica in senso stretto). Nel sistema hegeliano la s. civile costituisce il passaggio intermedio del processo dialettico tramite il quale la «sostanza etica» sale, nella sua realizzazione, dall’«immediatezza naturale» della famiglia alla «consapevolezza» dello Stato. La s. civile è il luogo della connessione e mediazione di interessi particolari contrapposti, il momento in cui si configurano i rapporti economici. È superiore alla famiglia (che è una s. naturale, basata sui legami del sangue e dell’affetto, e costituisce una forma solo primordiale di eticità), ma non è ancora quella forma di eticità pienamente dispiegata che è lo Stato, che riassume in sé e supera le precedenti forme della socievolezza dell’uomo.

K. Marx conserva la concezione hegeliana della s. civile, ma capovolge il rapporto con lo Stato: famiglia e s. civile non sono sfere derivate dallo Stato, ma ne sono i presupposti. Lo Stato è il complesso delle leggi e degli apparati che tengono insieme i rapporti antagonistici propri della s. civile, dove ognuno persegue il proprio interesse indipendentemente e in contrasto con tutti gli altri. Concorrenza, sfruttamento, disuguaglianza caratterizzano la s. civile/borghese. Lo Stato, mentre garantisce il funzionamento dei meccanismi di riproduzione della s. civile, costituisce una sfera illusoria, in cui tutti sono uguali come cittadini (mentre, in realtà, tutti sono diseguali in quanto membri della s. civile). Sicché per Marx s. civile/borghese e Stato devono essere soppressi, e si deve dar vita a una comunità di liberi e di uguali, che si autogovernano e regolano le forze produttive da essi create.

SCIENZE SOCIALI


1. S. e cultura


Secondo il presupposto della sociologia, la base di ogni s., in passato come nel mondo contemporaneo, è costituita da un sistema di interazioni che unisce tra loro gli esseri umani. La s. umana vive e si sviluppa non tanto in base all’istinto, come avviene nelle s. animali, quanto attraverso un insieme di credenze e di rappresentazioni in senso lato culturali, comprendenti valori e modelli di comportamento. Di qui il nesso inscindibile tra s. umana e cultura, nel senso che non esiste la prima senza la seconda né, viceversa, la cultura senza la società. D’altra parte, il fatto che elemento costitutivo della s. sia la condivisione da parte dei suoi membri di un patrimonio simbolico specifico (si pensi, per es., al linguaggio), che la contraddistingue e, al tempo stesso, la differenzia da ogni altra, non esclude che una determinata s. possa avere legami culturali con altre e condividere con le stesse modi di essere, di pensare e di agire. Il compito dell’analisi sociologica è quello di descrivere e analizzare le varie forme di interazione così come esse si presentano nei diversi contesti storico-culturali.

2. Tipologie di società


La tradizione sociologica è ricca di contrapposizioni tra modelli di s. che vengono denominati idealtipi. H. Spencer poneva la distinzione tra s. militare (centralizzata e gerarchica) e s. industriale (caratterizzata da autonomia e libertà della persona). Analogamente É. Durkheim distingueva tra s. basate sulla solidarietà meccanica (dove prevale il diritto repressivo e dove l’uomo agisce in base ai dettami della collettività) e s. basate sulla solidarietà organica (caratterizzate dalla divisione del lavoro e da altri elementi). F. Tönnies metteva a fuoco le differenze tra comunità (Gemeinschaft) e s. (Gesellschaft): la prima si fonderebbe sull’affettività, sulla presenza di sentimenti comuni e reciproci; la seconda, invece, sarebbe un’unione contrattuale nel cui ambito le relazioni, fredde e formali, sono fondate sull’interesse personale.

Nell’analisi di K.R. Popper ha assunto rilievo centrale la contrapposizione tra s. chiusa (intrinsecamente totalitaria) e s. aperta (che presuppone l’esercizio critico della ragione e la presenza di istituzioni che consentono il controllo dell’azione dei governanti e la possibilità di sostituirli) .

Oltre a queste classificazioni dicotomiche, in passato sono state avanzate anche classificazioni multiple. Fra queste, quella di A. Comte, che distingueva, in base alle forme di conoscenza, tra s. militare (corrispondente allo stadio teologico della conoscenza, in cui la spiegazione dei fenomeni viene ricercata nel soprannaturale), s. di giuristi (corrispondente allo stadio metafisico in cui i fenomeni sono spiegati in ragione di forze astratte) e s. industriale (considerata ottimale e corrispondente allo stadio positivo, di conoscenza scientifica dei fenomeni). Per K. Marx, alla base della s. e del mutamento sociale vi sono i rapporti di produzione. La classificazione in base ai rapporti di produzione contempla uno stadio iniziale di comunismo primitivo e quattro successivi fondamentali modi di produzione (asiatico, antico, feudale e borghese). Il modo di produzione borghese costituirebbe la forma antagonistica terminale del processo di produzione sociale, poiché, secondo Marx, la rivoluzione del proletariato avrebbe condotto a una s. senza classi, dove al conflitto sociale si sarebbe sostituita l’armonia tra gli individui.

In tempi successivi, T. Parsons ha elaborato una tipologia delle s. d’impostazione evoluzionistica. Il mutamento sociale consiste in un processo di progressiva differenziazione funzionale, che si distingue in tre livelli evolutivi (primitivo, intermedio, moderno), ai quali corrispondono differenti s. umane: la s. primitiva, la s. primitiva avanzata, la s. intermedia e quella moderna.

G. Lenski ha elaborato una tipologia basata sulle principali fonti di sussistenza, distinguendo fra s. di caccia e raccolta, s. orticole (coltivazione con mezzi rudimentali), s. agricole e, infine, s. industriali (che sfruttano le macchine e le fonti energetiche).

3. S. industriale e postindustriale


Tra le differenti correnti della sociologia è possibile registrare un notevole consenso nell’individuazione del processo di industrializzazione come un evento che ha cambiato radicalmente il volto della società. La produzione meccanizzata, lo sviluppo tecnologico e scientifico, l’impiego prevalente della popolazione attiva nelle fabbriche e negli uffici, l’aumentato livello di urbanizzazione della popolazione, il diffondersi di forme democratiche di gestione del potere politico, la maggiore rapidità dei trasporti e delle comunicazioni sono alcuni dei fattori significativi che, nel loro intrecciarsi sinergico, hanno prodotto la s. industriale. Tale forma di s., nel momento in cui si è consolidata e diffusa, è stata oggetto di numerose critiche, dirette a contrastare la visione ottimistica propria del positivismo. Già Marx aveva messo in evidenza le contraddizioni interne del capitalismo e l’inevitabile acutizzarsi del contrasto endemico tra sfruttati e sfruttatori. A sua volta, la sociologia critica della scuola di Francoforte ha accusato la s. industriale di essere una macchina infernale che snatura e impoverisce l’uomo.

Dalla s. industriale si sarebbe passati, come osservato da diversi studiosi, a un nuovo assetto societario definito s. postindustriale, della quale esistono, tra gli studiosi, diverse visioni. A. Touraine ritiene che l’espressione s. programmata, nella quale la produzione e diffusione di massa dei beni culturali occupano il posto centrale che nella s. industriale era occupato dai beni materiali, sia più precisa di quella di s. postindustriale. È stato anche osservato che, mentre nella s. industriale il problema fondamentale è la produzione di ricchezza, nella s. contemporanea, indicata pure come s. del rischio, la questione cruciale è quella di prevedere, riconoscere, ridurre e, se possibile, neutralizzare i rischi connessi al processo di modernizzazione. La nozione di rischio si adatta perfettamente al dibattito contemporaneo sulla nuova cultura globale o, meglio, alle problematiche connesse alla globalizzazione.

zoologia


Associazione di animali composta da individui della stessa specie, o di specie diverse, più o meno intimamente legati fra loro dalle esigenze della vita. Nel quadro dei rapporti che si stabiliscono tra individui della stessa specie (rapporti intraspecifici), si distinguono le semplici relazioni di convivenza e di collaborazione, che caratterizzano le s. animali, dalle unioni materiali somatiche, in cui i singoli organismi hanno perduto la loro individualità per formare la colonia o cormo. I Mammiferi, in particolare, presentano rapporti sociali complessi, evolutisi a partire dal rapporto madre-figlio.

Le s. si differenziano soprattutto per la capacità di distinzione e riconoscimento individuale degli elementi del gruppo, ciascuno dei quali appartiene a un rango gerarchico definito. Nei Carnivori la causa principale dell’evoluzione dei rapporti sociali è costituita dalla caccia, in quanto la cooperazione tra gli individui ne aumenta l’efficacia, mentre le s. di Primati si distinguono per la notevole differenziazione dei ruoli e dei comportamenti individuali, e per l’importanza assunta dall’apprendimento e dalla trasmissione culturale nella definizione dei rapporti sociali tra i membri del gruppo.

Le relazioni tra individui della stessa specie si concretizzano nei comportamenti sociali, ossia nell’insieme delle azioni codificate con cui i membri della specie svolgono le principali funzioni del ciclo vitale quali la riproduzione e il nutrimento (rientrano in questa categoria, tra l’altro, i rituali di accoppiamento, le cure parentali e il territorialismo); tali comportamenti caratterizzano sia le specie sociali, costituite da gruppi permanenti di due o più individui (gruppi sociali o s.), sia le specie solitarie, nelle quali si manifestano nel corso delle interazioni temporanee tra individui (per es., durante la riproduzione o nella difesa delle risorse).

Quando i singoli individui svolgono la loro attività in funzione delle necessità collettive, la s. è di tipo collettivista. A questo tipo appartengono le s. dei cosiddetti Insetti sociali, Imenotteri (api, vespe e formiche) e Isotteri (termiti), nelle quali si osserva una divisione in caste, con individui fecondi (regina, re) e individui sterili (operaie, soldati) e, parallelamente, una divisione obbligata delle diverse attività per le caste stesse. Le s. delle vespe e dei bombi sono annuali: una femmina nata e fecondata alla fine dell’estate genera nella primavera successiva le operaie che costruiscono il nido. Verso la fine dell’estate nascono anche maschi e femmine fecondi; al sopravvenire dell’inverno, operaie e maschi muoiono; sopravvivono solo le femmine fecondate, che danno inizio a nuove colonie l’anno successivo. Le s. delle api, delle formiche e delle termiti sono invece perenni. Le formiche sono divise in 3 caste: femmine feconde (regine), maschi, operaie. I maschi, tranne eccezioni, sono alati e servono unicamente per la fecondazione delle regine; anche queste sono alate ma si asportano spontaneamente le ali dopo il volo nuziale. Le operaie, infeconde, prive di ali, formano il grosso della s. ed eseguono tutti i compiti necessari alla vita di questa. Anche la s. delle api è formata da 3 caste: regina, fuchi, operaie. La regina, femmina fertile, ha anche le maggiori dimensioni. I fuchi, maschi fertili, compiono solo la fecondazione. Le operaie sono femmine sterili, formano la maggior parte dell’associazione, e, divise in varie categorie, compiono tutti i lavori necessari alla società. La s. delle termiti è basata su più caste riproduttrici (feconda macrottera, feconda brachittera, feconda attera): i fondatori della colonia si riconoscono per le maggiori dimensioni, specialmente la femmina il cui addome può raggiungere un volume pari a 20.000 volte quello di un’operaia. Le caste sterili sono quella degli operai (che manca in alcuni generi), rappresentata da maschi e femmine con organi sessuali non funzionanti, che eseguono tutti i lavori della s., e quella dei soldati (che manca in pochi generi), anch’essa rappresentata da maschi e femmine sterili che hanno per compito la difesa del nido e delle spedizioni. Anche le larve e le ninfe (neanidi) delle termiti collaborano con gli operai al mantenimento della comunità. Tutti questi diversi rapporti di collaborazione e divisione del lavoro si attuano con complessi sistemi di comunicazione ) chimica, visiva, tattile, acustica).


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