الأربعاء، 5 أغسطس 2015

In Olanda l'economia va alla grande e le richieste d'asilo sono in calo. E allora perché gli elettori sono così arrabbiati


Gli olandesi sono in media più ricchi e più felici della maggior parte degli europei. Contrariamente a quanto strillato in campagna elettorale da Geert Wilders, le richieste di asilo da parte di migranti extracomunitari sono in calo: nel gennaio di quest'anno sono state registrate 1.200 richieste in meno rispetto a gennaio 2016. E allora di cosa si lamentano gli olandesi? È una domanda aperta quella che accompagna il voto di oggi in Olanda, un appuntamento che invita a riflettere sulle origini del malcontento, sui paradossi della globalizzazione e sull’incapacità dei dati economici di descrivere a pieno ciò che accade ogni giorno nelle nostre società.

I dati statistici sui migranti e le variabili economiche raccontano una realtà ben diversa da quella che ci si potrebbe aspettare da un elettorato così arrabbiato. Partiamo dai migranti: in un'intervista al Corriere della Sera Dirk ter Steege spiega, a nome dell'Ufficio centrale di statistica, cosa dicono i numeri sulle richieste d'asilo:

Le richieste di asilo presentate da migranti extracomunitari al governo olandese stanno diminuendo di anno in anno, di mese in mese. Gli ultimi dati ufficiali parlano di 2.700 richieste registrate in questo mese di gennaio, 1.200 in meno rispetto al mese di gennaio del 2016. "Non so come vada in altri Paesi ma qui è così: una tendenza in calo già nel 2016 rispetto al 2015, e che ora continua. Si registrano meno richieste di ricongiungimento familiare, e arrivano meno persone che chiedono asilo per la prima volta".
Eppure i sondaggi prevedono buoni risultati per il partito del leader xenofobo e anti-islam Geert Wilders, convinto sostenitore della Nexit, cioè dell'uscita dell'Olanda dall'Unione europea, su cui ha detto di volere un referendum sul modello di quello britannico di giugno 2016. Gli investitori sono rimasti piuttosto fiduciosi durante la campagna elettorale, soprattutto perché è difficile che Wilders ottenga la maggioranza in Parlamento e visto che i principali partiti si sono dichiarati contrari a entrare in un governo di coalizione guidato da lui. Ma l’asprezza della campagna elettorale e le alte percentuali assegnate dai sondaggi al Partito per la Libertà (Pvv) sono lo specchio di un malcontento che sembra aver messo le radici nella società olandese.

Il punto è che, almeno nel caso olandese, spiegare il successo del “populista” Wilders con il refrain della crisi economica e della disoccupazione non funziona. E non funziona per un motivo molto semplice: in Olanda l’economia sta andando alla grande, come spiega un articolo pubblicato dall’Economist con il titolo “Who’s Nexit?”.

Nel 2016 il Pil dell’Olanda è cresciuto del 2%, registrando una performance migliore della media dell’eurozona (1,7%). Una lunga serie di trimestri in positivo hanno determinato una crescita al tasso più veloce mai registrato dal 2007 e una performance migliore rispetto ai Paesi vicini, a iniziare dalla Germania. La disoccupazione è scesa al 6% (la media nella zona euro è al 10%), il rapporto deficit/Pil all’1,4 per cento. Dati che attestano un quadro migliore rispetto all’inizio della crisi: oggi in Olanda lavorano più persone che nel 2007, quando la crisi iniziò ad abbattersi sull’Europa.
Le famiglie sono tornate a spendere, grazie alla ripresa del mercato immobiliare e all’aumento dei salari. Le casse del governo sono solide: quest’anno ci si aspetta il pareggio – o addirittura un surplus – di bilancio e il debito pubblico dovrebbe scendere sotto il 60% del prodotto interno lordo.


Lasciando da parte il Pil, gli olandesi sembrano passarsela bene anche dal punto di vista della felicità. I Paesi Bassi sono infatti al settimo posto nella classifica dei Paesi più felici del mondo redatta nel 2016 dalle Nazioni Unite (l'Italia, tanto per intenderci, è al cinquantesimo posto).

La domanda è: se l’economia va così bene e il livello di "benessere soggettivo" è alto, perché gli olandesi sono così arrabbiati?

Marieke Blom, capo economista della banca ING, attribuisce queste previsioni positive alle dure riforme approvate dal governo nel corso degli ultimi anni, in particolare l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni (dal 2021) e la riforma del finanziamento del sistema sanitario. Anni di riforme, austerità e recessione, insomma, stanno presentando il conto. Un fatto di cui è consapevole anche il ministro delle Finanze Jeroen Dijsselbloem, che ha riconosciuto come, malgrado le previsioni positive, “molti dei nostri elettori abbiano affrontato tempi davvero duri”. Il primo ministro Mark Rutte – che governa il Paese dal 2010 e corre per un altro mandato – ha messo al centro della sua campagna i buoni risultati economici, senza tuttavia riuscire a convincere le fasce più povere della popolazione, che sono quelle più duramente colpite dall’austerità e dai tagli alle spese e più incerte per quanto riguarda il futuro.

Anche un report di Deutsche Bank lega il ritmo dell’economia olandese alla necessità di proseguire su riforme importanti in materia di pensioni, mercato del lavoro e mercato immobiliare. L’istituto tedesco vede all’orizzonte “un ciclo virtuoso tra politiche monetarie e fiscali più espansive che rende il credito maggiormente disponibili per l’economia reale” e “segni di un nascente recupero dell’export”. A costo, però, di mettere in campo ulteriori riforme.

Il capitolo più spinoso è quello delle pensioni. Dal primo gennaio di quest’anno gli olandesi potranno andare in pensione solo a 65 anni e 9 mesi e l’età pensionabile salirà progressivamente fino ad arrivare a 67 anni nel 2021. Il malcontento cresce in questo contesto ed è in questa cornice che Pvv, socialisti e 50+ hanno promesso di riportare l’età pensionabile a 65 anni.

L'economia olandese non sorride solamente di luce propria. L'Olanda, infatti, è un Paese attraente per chi vuole fare impresa e avere un fisco iperconveniente: come in Lussemburgo è possibile concordare un trattamento fiscale speciale direttamente con il ministero delle Finanze senza che la politica possa mettere becco. In cosa si avvantaggiano le aziende che decidono di avere o trasferire la propria sede fiscale in Olanda? La parola magica si chiama royalties. Attraverso un meccanismo ben confezionato, le royalties in Olanda non sono tassate e i giganti della tecnologia, ma non solo, possono avvantaggiarsi in termini di profitti. Basta creare una controllante olandese, a cui la società madre paga royalties apparentamente gonfiate: in questo modo i profitti a bilancio diminuiscono e anche le tasse da pagare sul fatturato nel Paese d'origine.

Un dato su tutti mette quanto il paradiso fiscale olandese sia in grando di generare appeal: 80 tra le 100 aziende più grandi del mondo e quasi metà delle 500 compagnie della classifica di Fortune hanno una società di riferimento con sede ad Amsterdam. Sede fiscale perché il regime olandese è molto permissivo e permette quindi alle imprese di sborsare meno soldi in termini di tasse. L'economista olandese David Hollanders dà un po' di numeri significativi su quelle che vengono definite nulla di più che cassette delle lettere: nella capitale olandese 12mila società generano un controvalore fiscale di 4 miliardi di euro. Non esiste Paese al mondo ad avere un valore societario così elevato.

Il caso dell’Olanda incarna bene la complessità della globalizzazione, con tutti i suoi paradossi. Il Paese è diventato ricco, nel corso della storia, veleggiando per mari e commerciando con il mondo, e per molti versi – sottolinea l’Economist - è ancora l’economia più aperta del mondo: oggi è il quinto Paese per esportazioni; un terzo del suo Pil deriva dall’esportazione di merci e servizi. Pochi altri Stati hanno così tanto da perdere da un mondo in cui i ponti levatoi vengono tirati su e le navi fatte restare nei porti.

Eppure Geert Wilders e la sua crociata pro-Nexit continuano a riscuotere consensi. Secondo il leader sindacale Niek Stam, gli scaricatori del porto di Rotterdam voteranno in massa per lui non perché sono razzisti, ma perché temono di essere rimpiazzati dai robot e di andare in pensione sempre più tardi. “Alcuni pensano che dovremmo fare come gli inglesi con la Brexit, visto che la globalizzazione provoca anche danni”.

 settimanale economico prende il porto di Rotterdam come luogo simbolo di questa contraddizione:

È proprio un posto come Rotterdam, la porta olandese d’Europa, che pagherebbe il prezzo più alto da un’eventuale ritirata della globalizzazione. Negli ultimi vent’anni il ri-export olandese (computer che arrivano dalla Cina e vengono spediti, ad esempio, in Germania) ha quadruplicato il suo valore 
Secondo le agenzie di rating, l’Olanda (assieme a Belgio, Irlanda e Malta) è tra i Paesi più esposti agli effetti della Brexit. Dopo la Germania, la Gran Bretagna è il secondo mercato più grande per le esportazioni olandesi. Circa l’80% dei fiori e il 70% delle piante importate dai britannici arriva dai Paesi Bassi. Molto preoccupata è anche la lobby della pesca, che ha un enorme bisogno di accedere alle acque britanniche: arriva da lì il 60% del pesce olandese, incluso il 90% della loro amatissima aringa. L’export agricolo e alimentare verso la Gran Bretagna è stato di 8,9 miliardi di euro solo lo scorso anno.
Secondo l’Agenzia olandese di analisi della politica economica, una “hard Brexit” (in cui il commercio con il Regno Unito è governato solo dalle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio) costerebbe all’economia olandese una quota di Pil compresa tra l’1,2 e il 2% entro il 2030. A questo bisogna aggiungere le minacce che arrivano dall’America, da cui dipendono il 3,4% del Pil olandese e 300mila posti di lavoro.
Secondo Wim Boonstra, economista di Rabobank, per l’Olanda lasciare l’Ue avrebbe un impatto molto più forte rispetto alla Brexit per i britannici: “Siamo il secondo Paese al mondo in fatto di esportazioni di prodotti agricoli. Senza il libero scambio affogheremmo nel latte e nel formaggio”.


الأحد، 26 يوليو 2015

Imprese, risparmio e fisco
«L’Economia» per tutti


Il nuovo settimanale in edicola da oggi lunedì 13 marzo con il Corriere della Sera racconterà il futuro e ha un passato. Il supplemento è nato nel 1989 ed ora è stato rinnovato di Giuditta Marvel

Oggi L’Economia debutta in edicola. Il nuovo settimanale del Corriere della Sera racconterà il futuro e ha un passato. E’ nato nel 1989, come CorrierEconomia, quando i giornali erano ancora in bianco e nero. Da allora ha cambiato diverse volte forma e grafica, arricchendosi di contenuti, che hanno descritto l’evoluzione socio economica dell’Italia, dell’Europa e del mondo sempre più connesso e globalizzato

«Con L’Economia, il Corriere della Sera fa un altro passo nel rinnovamento della sua offerta — dice il direttore Luciano Fontana —. Abbiamo progettato un settimanale molto bello, ricco, piacevole da leggere. Sarà pieno di inchieste, dossier e analisi, con tanti esempi di innovazione e tutti i consigli di finanza personale, scritto con un linguaggio molto chiaro che aiuti a entrare nel mondo complicato dell’economia»

La proposta «potenziata» de L’Economia si articola in quattro macro-sezioni

, attraversate da infografici, schede e titoli che hanno l’ambizione di portare per mano il lettore dentro alle storie. Nella prima inchieste, retroscena esclusivi, classifiche, casi aziendali e personaggi. Le firme illustri del quotidiano di Via Solferino saranno protagoniste, virtualmente riunite in un vero e proprio comitato editoriale permanente. Alcuni approfondimenti, a cominciare già dal primo numero, verranno curati da editorialisti internazionali. La seconda area, dedicata all’innovazione, metterà al centro esperimenti di successo imprenditoriale, italiani e non. L’obiettivo è raccontarli, attraverso i volti e le storie di chi sta facendo qualcosa di nuovo nell’economia reale, sempre fatta di persone. In queste pagine si seguiranno realtà in evoluzione, processi inediti, intuizioni che si sono trasformate in business. Il terzo ambito è dedicato alle imprese, piccole e grandi, e al vastissimo mondo delle professioni: racconterà i self made man tricolori e i capitani coraggiosi, quelli che non si sono dati per vinti e sono cresciuti anche nella crisi. Ultima ma non meno importante, l’area con i temi di finanza personale e gli osservatori. Nella lunga storia dell’inserto l’attenzione agli argomenti utili per chi risparmia e investe, compra o vende casa, sogna una pensione, lotta con le tasse non è mai mancata. Anzi. È cresciuta. Nella consapevolezza che il contributo giornalistico può dare un’idea in più con analisi, numeri e confronti. Senza offrire soluzioni miracolose, che non esistono in nessun contesto.
L’Economia avrà anche un luogo dedicato su corriere.it.raggiungibile dal canale delle notizie economiche oppure digitando: ww.corriere.it/economia/leconomia. Ad aspettare i navigatori contenuti multimediali, come l’Enciclopedia del Risparmio a cura di tutti i giornalisti dell’area economica. Dai mutui al conto corrente, dalle novità fiscali alle sofferenze bancarie. Un minuto e mezzo di informazione alla volta, a ritmo di grafica animata. In grado, ci auguriamo, di portare anche i più diffidenti sul pianeta di un’economia seria. Ma non triste.



الخميس، 9 يوليو 2015


La Gdf scopre un patrimonio illecito di 22 miliardi

Nel 2017 la Guardia di finanza ha portato alla luce un patrimonio criminale di circa 22 miliardi. Tra sequestri e confische alla mafia (3,9 miliardi), distrazioni patrimoniali in danno di società fallite (2,9 miliardi), proposte di sequestro di disponibilità patrimoniali e finanziarie per il recupero delle imposte evase per frodi fiscali (3,9 miliardi), sprechi o gestioni irregolari di fondi pubblici (con danni patrimoniali allo Stato per oltre 5,3 miliardi), appalti pubblici irregolari (3,4 miliardi), sequestro di prodotti illegali (oltre 2,4 miliardi), è questa - per difetto - la cifra raggiunta lo scorso anno.

Lotta ai patrimoni criminali 

Il contrasto alla criminalità organizzata e alla criminalità economico-finanziaria è stato un leit motive dell'azione della Gdf anche nel 2016.
Le Fiamme gialle hanno svolto 11.942 accertamenti economico-patrimoniali a carico di condannati e indiziati di appartenere ad associazioni mafiose e loro prestanome, che hanno riguardato complessivamente 9.882 persone fisiche e 2.060 fra aziende e società. 
Sono stati eseguiti sequestri di 5.242 beni mobili e immobili, 281 aziende e quote societarie e disponibilità finanziarie per un valore complessivo di circa 2,6 miliardi. Confiscati, invece, 1.640 beni mobili e immobili, 239 aziende e quote societarie e diponibilità finanziarie per un valore complessivo di 1,3 miliardi. 
Sono stati denunciati 215 soggetti per associazione mafiosa, 74 dei quali tratti in arresto, mentre 810 sono stati denunciati per il reato di trasferimento fraudolento di valori, indicativo di fenomeni di interposizione fittizia, di cui 68 arrestati. 
In materia di riciclaggio sono state svolte 840 indagini e attività di polizia giudiziaria che hanno portato alla denuncia di 2.035 soggetti, di cui 142 in stato di arresto. Sono invece 2.150 le violazioni accertate in materia di trasferimenti di denaro contante per importi superiori alla soglia di legge prevista.
In relazione alla nuova fattispecie di auto-riciclaggio sono state eseguite 197 indagini e attività di polizia giudiziaria, con la denuncia di 531 soggetti, 16 dei quali in stato di arresto. 
Sono state 21.512 le segnalazioni di operazioni sospette approfondite dal Nucleo speciale polizia valutaria e dai reparti delegati sul territorio. 
Le segnalazioni approfondite inerenti a possibili contesti di finanziamento del terrorismo sono state invece 570.
Nell'azione di contrasto all'usura, denunciati 402 soggetti, di cui 87 tratti in arresto, con il sequestro di patrimoni e

Contrasto ai traffici illeciti 

La Gdf ha sequestrate oltre 37,9 tonnellate di droga a carico di 6.678 soggetti denunciati, di cui 1.963 arrestati. 
Di questo quantitativo, oltre 15 tonnellate, pari al 43% del totale, sono state sequestrate dai mezzi navali ed aerei del Corpo nell'ambito di operazioni svolte in mare contro organizzazioni di narcotrafficanti nel quadro della cooperazione internazionale, a carico di 36 soggetti tratti in arresto, con 21 imbarcazioni sequestrate. 
Effettuati 10.284 interventi contro le frodi doganali e il traffico di contrabbando e sequestrate più di 243 tonnellate di tabacchi lavorati esteri e 719 mezzi terresti e navali utilizzati per il trasporto e l'occultamento della merce, con la denuncia di 4.869 persone, di cui 318 arrestate. 
Eseguiti 13.220 interventi e denunciate all'autorità giudiziaria 9.765 persone, di cui 120 arrestate, per reati in tema di contraffazione. 
Sequestrati più di 180 milioni di prodotti illegali, perché contraffatti, piratati, pericolosi o con falsa o fallace indicazione di origine o provenienza, per un valore stimato di oltre 2,4 miliardi.
Tolti dal mercato 215 tonnellate e 335.000 litri di generi agroalimentari contraffatti o prodotti in violazione della normativa sul made in Italy. 
Sequestrati od oscurati 620 siti internet utilizzati per lo smercio di articoli contraffatti od opere audio-video illecitamente riprodotte. 
Nell'attività di contrasto al falso monetario sono state rinvenute 385.998 banconote false e operati sequestri per un controvalore complessivo pari a circa 7,8 milioni. Scoperte 2 stamperie clandestine. Denunciati 307 soggetti e arrestate 41 persone. 
Nel settore del contrasto all'immigrazione clandestina 124 soggetti sono stati tratti in arresto e 32 mezzi sono stati sequestrati.

L’economia alla portata di tutti con il quotidiano


La sensazione di impotenza delle politiche economiche si aggiunge alle tensioni geopolitiche – crisi migratoria, ebollizioni nella caldaia medio-orientale, brividi da guerra fredda fra America e Russia – in un amaro “combinato disposto” che genera crescenti frustrazioni con lo status quo. Sorgono così movimenti politici che capitalizzano sulla disaffezione dei cittadini e cercano vie d’uscita – via l’euro, via l’Europa... – che, per quanto illusorie, attizzano il malessere generale.

In queste circostanze difficili c’è bisogno di tornare ai fondamentali: il modo naturale dell’economia è la crescita, non la stagnazione. Nella prima uscita abbiamo voluto tornare, appunto, ai fondamentali: spiegare come l’intreccio fra domanda e offerta spinge il sistema economico, come la distribuzione dei redditi fra profitti e salari possa comporsi in una soluzione equa per tutti, come l’apertura agli scambi sia una preziosa componente dell’assetto economico del Paese. Con l’augurio che il malessere presente possa presto lasciar luogo alla riscoperta di quei valori che ci permettono di ritrovare la via della crescita.

Se in un Paese scoppia uno scandalo come quello italiano delle tangenti dell’inizio degli anni 90, è facile incolpare il Governo, i politici, la classe dirigente. Ma se scoppia la crisi economica, chi incolpare? Gli stessi parlamentari, gli stessi ministri danno la colpa alla crisi come si potrebbe dar la colpa alla grandine o al terremoto. E il cittadino si sente frustrato dal non poter “guardare in faccia” il responsabile di questa sofferenza economica.
La risposta, naturalmente, sta nel fatto che l’economia obbedisce a delle leggi sue proprie, che sono diverse dalle leggi approvate dal Parlamento, e ancora diverse dai (ma certo non incompatibili coi) Dieci Comandamenti. Capire queste leggi non vuole dire certo poterle dominare.

L’economia è fatta dai comportamenti di milioni di individui, e nessuno può essere dittatore dell’economia. Le pretese delle “economie di comando” dei Paesi socialisti sono state spazzate via dalla storia. Ma se capire non basta per dominare, basta per non essere dominati. Cioè a dire, la comprensione dei meccanismi dell’economia restituisce il cittadino al ruolo di spettatore intelligente, e non di oggetto passivo. Di più, questa comprensione permette di giudicare della compatibilità fra i propri comportamenti e i risultati che si vogliono ottenere. Basta qualche esempio:
- chiedere aumenti di stipendio che l’impresa non può sopportare

oscere l’economia con il quotidiano» e «Come si legge Il Sole 24 Ore»: un accostamento che dura da decenni. Del cammino delle economie - e di quella italiana in particolare – Il Sole 24 Ore è da sempre guida e interprete. E il libro che scaturì dal crescente successo del quotidiano – appunto, «Come si legge il Sole 24 Ore» – seppe aggiungere a un folgorante successo iniziale la tenuta di un cavallo di razza: segno che rispondeva a un bisogno vero di un pubblico che è giustamente assetato di economia.

Abbiamo voluto riproporre quell’accostamento con un altro formato: una nuova collana in venti uscite settimanali in cui i grandi temi dell’economia odierna vengono esposti e smussati («L’economia alla portata di tutti» è il tema del primo fascicolo giovedì 6 ottobre), con un costante riferimento a come nel Sole 24 Ore - tanto sul quotidiano quanto sul sito e sull’insieme dei servizi digitali - questi temi sono descritti e trattati.


السبت، 4 يوليو 2015

etica In senso


etica In senso ampio, quel ramo della filosofia che si occupa di qualsiasi forma di comportamento .gr. ἦθος. umano, politico, giuridico o morale; in senso stretto, invece, l’e. va distinta sia dalla politica sia dal diritto, in quanto ramo della filosofia che si occupa più specificamente della sfera delle azioni buone o cattive e non già di quelle giuridicamente permesse o proibite o di quelle politicamente più adeguate.

I filosofi nelle loro dottrine etiche hanno avuto di mira due differenti obiettivi, spesso ricercati congiuntamente. Da una parte si sono proposti di raccomandare nella forma più articolata e argomentata l’insieme di valori ritenuti più adeguati al comportamento morale dell’uomo; dall’altra hanno mirato a una conoscenza puramente speculativa del comportamento morale dell’uomo, badando non tanto a prescrivere fini, quanto a ricostruire i moventi, gli usi linguistici, i ragionamenti che sono rintracciabili nel comportamento etico. Nel 20° sec. è invalso l’uso di distinguere nettamente tra questi due indirizzi nella riflessione sulla morale, caratterizzando come e. una filosofia prevalentemente pratica, impegnata in difesa di determinati valori, e come metaetica una filosofia con pretese esclusivamente teoretiche e conoscitive, rivolta a ricostruire la logica e il significato delle nozioni in uso nella morale.

 L’e. nel mondo greco


Alle origini dell’e. greca troviamo nei poemi omerici l’affermazione della superiorità di virtù, quali il coraggio e la pietà verso gli dei, adeguate alla vita del guerriero. In risposta alle esigenze di una società contadina troviamo invece, nelle opere di Esiodo, la prevalenza di virtù come l’operosità e la frugalità. Ai sette savi si fanno poi risalire una serie di massime in cui il bene morale viene legato alla ricerca personale di saggezza. Particolarmente vivace fu nella cultura ateniese del 5° sec. a.C. il dibattito sui fini della condotta umana. I sofisti sottolinearono l’origine umana e non divina dei valori, riconducibili all’imposizione o dello Stato o di gruppi di cittadini più forti, e, in contrasto con l’opinione più diffusa, sostennero la tesi dell’insegnabilità della virtù, impegnandosi a elaborare particolari tecniche retoriche volte a ottenere la persuasione a proposito della superiorità di determinati valori.

La ricerca sulla nozione di bene va considerata al centro dell’attività filosofica di Socrate, al quale si fa risalire il primo tentativo di definire la natura propria della virtù, mettendone in luce la non riducibilità alle mutevoli nozioni del bene: l’universale è essenzialmente l’universale etico, e cioè propriamente i concetti con cui si regolano e giudicano le azioni. Tra i socratici, chi meglio capì l’insegnamento del maestro fu Platone, per il quale il problema morale restò al centro della filosofia. Ma il concetto socratico trapassò nell’‘idea’, divenendo forma non più soltanto del mondo umano ma anche di quello naturale; e così l’unità del teorico e del pratico si ruppe. La frattura assunse forma sistematica nella concezione psicologica che contrapponeva, nell’anima, la parte razionale, sede della conoscenza, a quella irrazionale, sede degli affetti. Dall’accentuazione di uno dei termini dell’antitesi nacque il ripiegamento platonico sull’antica escatologia orfico-pitagorica, negatrice della vita presente per una vita oltremondana; la vita divenne distacco progressivo dal corpo dell’esule anima immortale, che nell’iperuranio aveva già contemplato le idee e ora, ricordandosene, aspirava a ritornarvi.

L’ampia trattazione etica di Aristotele (al quale si deve l’introduzione del termine e.) fu rivolta a fondare il bene non tanto su un’idea di perfezione assoluta, quanto piuttosto su una definizione della natura essenziale dell’uomo. Fine supremo della condotta umana è la felicità ( eudemonismo), che potrà essere raggiunta adeguando il comportamento alle esigenze proprie della natura umana. Una volta colto il carattere essenzialmente razionale dell’uomo, la felicità è fatta consistere nella vita secondo ragione. È solo con il prevalere delle facoltà razionali e con la realizzazione delle virtù dianoetiche (sapienza, scienza, intelligenza, arte, saggezza) che l’uomo può essere felice. Anche laddove sono gli impulsi sensibili a determinare le scelte è però possibile indicare una forma di comportamento virtuoso: avremo le diverse virtù etiche (coraggio, temperanza, liberalità, mansuetudine) che consistono nel dominare gli impulsi sensibili secondo un criterio del ‘giusto mezzo’ che esclude gli estremi viziosi.

Anche nell’e. post-aristotelica resta ferma la tendenza a identificare il bene supremo nel raggiungimento della felicità. L’edonismo di Epicuro fu anzitutto esigenza di liberazione dell’uomo dal timore di superiori fini, o volontà, che dominassero il mondo: l’uomo restava pienamente libero, slegato dalle cose, e il piacere consisteva in una tranquilla calma dell’animo, pago di sé e non indotto a uscire da sé per occuparsi del mondo. Questo ascetismo edonistico degli epicurei finiva così per coincidere, nel suo ideale di ‘atarassia’, con l’ideale di ‘apatia’ e di ‘indifferenza’ proprio dell’ascetismo rigoristico dei cinici, che nelle sue premesse teoriche e storiche gli era invece antitetico. Il cinismo assicurava all’uomo la più completa libertà che mai esso avesse potuto desiderare, ma insieme, affrancandolo da ogni motivo d’azione, gliela rendeva perfettamente inutile. Alla concezione cinica dell’io reagì lo stoicismo, pur nell’accettazione dell’ideale dell’autarchia e dell’indifferenza, in quanto vide nel mondo stesso il divino e nell’accadere il realizzarsi di un fato razionale, che nulla poteva alterare e di fronte a cui non restava se non la virtù dell’accettazione. Col neoplatonismo si ebbe una ripresa di motivi tipici dell’e. platonica ma con un’accentuata impronta mistica, che trasfigurava la dottrina delle virtù in funzione dell’ascesi e della ricongiunzione con Dio.

2. L’e. cristiana


Su una concezione religiosa totalmente nuova si fonda l’e. cristiana: essa è dominata dall’idea, predicata da Gesù di Nazaret, dell’ineffabile paternità di Dio innanzi al quale gli uomini sono tutti uguali e tutti fratelli. La regola di condotta evangelica, proprio perché esemplata sulla perfezione divina, si traduce in comandamento d’amore per gli altri; cade ogni distinzione etnica e sociale e l’incondizionato amore per il fratello, anche se nemico e peccatore, è il sommo comandamento. L’e. cristiana è un operoso donare sé stessi, senza nulla chiedere in cambio, solo in vista dell’attuazione del Regno che è sì dono di Dio, ma insieme meta cui l’uomo deve tendere. Inserita in un messaggio di universale riscatto, l’e. cristiana scopre una nuova dignità dell’uomo, chiama gli umili, gli incolti, i peccatori al più grande ideale di perfezione morale, rivela il senso del dolore e dell’amore, e pone a fondamento della nuova e. l’esempio del Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo che, incarnandosi e morendo in croce, riscattò gli uomini donando loro «il potere di diventare figli di Dio» (Giov. 1, 12).

Inserendosi nella tradizione e nella civiltà del mondo mediterraneo, il cristianesimo doveva necessariamente misurarsi con la cultura greca e, mentre rivendicava la propria assoluta originalità, ne veniva assorbendo motivi essenziali per trasformarli e adeguarli alla nuova concezione della vita e del mondo. Così nei Padri greci e in Agostino il richiamo all’interiorità e alla trascendenza, pur esprimendosi nei termini del linguaggio platonico, assume un significato nuovo: nell’‘uomo interiore’ il cristianesimo scopre non il ricordo di una forma immutabile, ma l’immagine stessa di Dio, presente a ciascuno con la luce dell’intelletto e della grazia.

3. E. moderna


Nell’Umanesimo e nel Rinascimento l’accentuarsi degli interessi ‘civili’, la polemica contro aspetti della spiritualità medievale (l’ascetismo in particolare), la rivendicazione di un fare politico autonomo rispetto alla legge morale, il ritorno ai filosofi antichi, riportano al centro delle discussioni sull’uomo e sul suo comportamento temi dell’e. classica. Si ricordi l’esaltazione della virtus come attività puramente umana e civile, che accetta i limiti terreni e si distacca da ogni preoccupazione metafisica: l’affermazione di questa virtus è alla base di ogni celebrazione umanistica della dignitas hominis, e trova il suo massimo riconoscimento in N. Machiavelli; e si ricordi ancora la fortuna dell’edonismo epicureo, da L. Valla ai libertini del Cinquecento e Seicento.

La ricerca del piacere e della propria conservazione torna in T. Hobbes, che ne fa l’impulso più forte nella natura umana: gli obblighi morali non riconducibili alla tendenza individuale al piacere sono il risultato delle imposizioni della forza statuale che mira, attraverso queste norme, alla conservazione della pace sociale. Contro la dottrina hobbesiana reagirono gli esponenti della scuola neoplatonica di Cambridge e R. Cumberland, il quale poneva al fondo della vita etica una ricerca del bene comune suffragata da sanzioni divine. La tendenza alla propria conservazione veniva posta al centro dell’e. anche da B. Spinoza, per il quale le valutazioni umane che non riconoscono e accettano l’ordine razionale necessario del mondo sono insignificanti e l’uomo virtuoso deve proporsi di dominare le passioni e seguire la ragione.

Nella filosofia inglese del 18° sec. a porsi in primo piano è piuttosto la questione dell’identificazione del criterio o facoltà che permette agli uomini di distinguere tra vizio e virtù. Già in A. Shaftesbury il recupero dell’e. stoica e l’affermazione, in contrasto con l’e. ‘egoistica’ di Hobbes, della presenza nella natura umana di un ‘senso morale’ si congiungono con il riconoscimento che il comportamento virtuoso deriva da una benevolenza universale. La tesi di una radice sentimentale delle distinzioni morali verrà ripresa da F. Hutcheson, D. Hume e A. Smith, i quali riterranno di potere provare la presenza nella natura umana di un’inclinazione alla benevolenza. Su questa base il comportamento virtuoso risulta quello che ha di mira non tanto la felicità individuale quanto una più intensa felicità del maggiore numero di persone cointeressate.

Un fondamento razionale alle distinzioni etiche daranno invece autori come S. Clarke e W. Wollanston. Non diversamente procederà J. Butler che recupererà, per denominare la facoltà in gioco nel comportamento morale, il termine di coscienza. Più interessati all’identificazione dei valori etici saranno gli esponenti dell’Illuminismo francese, che contro qualsiasi e. spiritualistica faranno valere una ricerca attiva del piacere e un comportamento che adatti l’individuo alla vita sociale. Un analogo rifiuto della morale tradizionale si trova in J.-J. Rousseau, che contro l’e. razionale dell’amor proprio auspica una morale liberatoria fondata sui sentimenti naturali e sulla compassione.

In polemica con l’e. utilitaristica, per I. Kant realtà morale può esserci solo quando la volontà sia determinata da un imperativo categorico, e cioè voluto assolutamente e di per sé, senza alcun riguardo ad altri fini. Questa autonomia e assolutezza della legge morale è, per Kant, il segno della sua universalità, del suo carattere a priori. Dall’apriorismo e dal rigorismo, che veniva a porre l’uomo in perenne conflitto con le passioni, nascono le più gravi difficoltà dell’e. kantiana, che Kant stesso cercò di superare postulando l’esistenza di un’altra vita e di Dio come principio del sommo bene, nel quale virtù e felicità, in terra perennemente dissociate, venissero a coincidere. La filosofia post-kantiana approfondisce questi problemi, ora accentuando il concetto di autonomia della morale, ora tornando a un’idea oggettivistica dell’e.: così nell’idealismo etico di J.G. Fichte trova pieno sviluppo il concetto kantiano di libertà, ponendo come suprema norma etica l’obbedienza alla pura convinzione razionale della propria coscienza, mentre G.W.F. Hegel vede il superamento della moralità individuale nell’ eticità (Sittlichkeit) che lo Stato incarna e alla quale il soggetto deve sottostare se vuole elevarsi sopra la sua singolarità. L’eticità in Hegel designa dunque quel complesso di istituzioni umane (famiglia, società civile, Stato) in cui la libertà si realizza oggettivandosi, ossia passa gradualmente dalla sua astratta espressione individualistica alla universalità concreta.

In polemica contro alcune tesi centrali dell’e. idealistica, S. Kierkegaard sostiene l’irriducibile individualità della scelta etica, contrapponendo poi la sfera della vita morale, caratterizzata dalla continuità e dall’impegno per l’universalità, alla vita estetica, dominata dal caso, e alla vita religiosa, come ‘scandalo’ e superamento della dimensione della società. In senso anti-hegeliano A. Schopenhauer presenta una morale in netta antitesi con la storia e la società: fine della condotta etica non è l’integrazione nella tradizione, ma piuttosto la negazione completa dei bisogni naturali fino all’annullamento di ogni desiderio e al più completo ascetismo. In F. Nietzsche contro i valori, accettati dall’e. cristiana e socialista dell’altruismo, del livellamento, della sottomissione, si propone una scelta ‘immoralistica’ in nome della volontà di potenza, dell’autoaffermazione e della completa liberazione degli istinti.

Di natura completamente diversa è lo sviluppo della riflessione sull’e. nella cultura inglese, in cui prevale l’accettazione del principio utilitaristico che vede la condotta morale nella realizzazione della maggiore felicità per il maggiore numero di persone. All’interno dell’e. utilitaristica del 19° sec. si tenterà principalmente di determinare con maggiore precisione il calcolo dei piaceri richiesto dall’applicazione del principio dell’utilitarismo. Così, mentre con J. Bentham aveva prevalso una concezione puramente quantitativa, con J.S. Mill i piaceri vengono distinti non solo per la loro intensità ed estensione, ma anche per la loro qualità.

Alla seconda metà del 19° sec. risale il tentativo di H. Spencer di utilizzare il modello evoluzionistico per rendere conto della condotta morale degli uomini. L’insieme dei valori etici è visto come uno strumento adottato dagli uomini nel tentativo di adattarsi sempre meglio alle condizioni vitali e la stessa coscienza del dovere morale non è altro che il residuo nell’individuo dell’esperienza acquisita dalla specie in questo processo. Nella cultura francese, l’approccio positivistico allo studio delle scienze morali portò A. Comte a concludere che la condotta morale è quella che tende all’utilità pubblica, che il sentimento dell’eticità è quello della solidarietà e che lo strumento per un’educazione morale è la sociologia.

4. La riflessione sull’e. nel 20° secolo


Nella riflessione filosofica del 20° sec. l’obiettivo di proporre una ben precisa tavola di valori passa in secondo piano, rispetto al tentativo di caratterizzare le condizioni proprie dell’esperienza morale. L’eredità di Comte fu al centro dell’opera di E. Durkheim, in cui l’e. si presenta come ‘scienza dei costumi’, mentre l’inservibilità dei metodi delle scienze fisico-matematiche nello studio dei fenomeni morali fu affermata da W. Windelband, H. Rickert e M. Weber. H. Bergson distingue tra due diverse forme di morale, quella chiusa, volta al mantenimento delle abitudini che permettono la conservazione della società, e quella aperta caratterizzata dall’entusiasmo creativo dei grandi innovatori quali i profeti e i santi. Nell’opera di M. Scheler si ha una rigorosa applicazione del metodo fenomenologico all’ambito della morale con l’affermazione dell’esistenza di un’intuizione emotiva a fondamento di ogni scelta etica. Anche per N. Hartmann nella vita etica è in gioco un peculiare tipo di sentimento assiologico che permette di cogliere direttamente gli ideali morali.

A ricostruire la genesi psicologica della morale sono rivolte alcune analisi di S. Freud: i valori morali sono visti come l’interiorizzazione da parte dell’individuo di regole repressive degli istinti e delle pulsioni; d’altro canto, il processo di sublimazione da cui nasce la condotta morale individuale rappresenta un elemento essenziale per la genesi della ‘civiltà’. Uno stretto collegamento tra vita etica e scelta viene affermato dagli esponenti dell’esistenzialismo; una scelta aperta verso il recupero dei valori cristiani in alcuni esponenti dell’esistenzialismo religioso, come G. Marcel, o verso un concreto impegno etico-politico in esponenti dell’esistenzialismo ateo, come J.-P. Sartre. Alla presentazione di una teoria naturalistica dell’e. si sono indirizzati gli esponenti del pragmatismo americano. In particolare, secondo J. Dewey, l’e. è caratterizzata da una serie di progetti in vista di una più armonica integrazione dell’uomo nella natura.

In ambito anglosassone, il discorso etico di G.E. Moore, basato sull’intuitività e l’oggettività dei giudizi morali, è stato messo in discussione dalla critica neopositivistica, rappresentata soprattutto da A.J. Ayer. Secondo Ayer il linguaggio etico non è riducibile in schemi logici, in quanto non si rintracciano in esso né proposizioni puramente logiche né proposizioni fattuali: esso è dunque linguaggio che convoglia emozioni puramente soggettive. Di fronte all’impossibilità di ricomprendere nell’ambito della filosofia neopositivistica qualsiasi discorso di tipo non strettamente scientifico, quello etico in particolare, si è tentato, soprattutto in Inghilterra, nel periodo immediatamente seguente alla Seconda guerra mondiale, il recupero del linguaggio etico alla dimensione del linguaggio significante, mettendo a punto una serie di tecniche analitiche che assumono come base di partenza il linguaggio comune. Così, C. Stevenson interpreta il discorso etico secondo un duplice aspetto: da un lato come discorso apprezzativo-persuasorio, e dall’altro come discorso riducibile all’indicativo, cioè informativo-dichiarativo. S.E. Toulmin, considerando invece il linguaggio morale riferito al contesto sociale, come espressione di bisogni e di soddisfazioni, propone una logica autonoma e particolare del discorso etico. R.M. Hare giunge a proporre la nozione di linguaggio prescrittivo universalizzabile al cui interno, accanto alle stesse regole formali che garantiscono in altri tipi di discorso la non contraddittorietà, operano anche regole empiriche per un controllo fattuale di certi giudizi. In armonia con l’impostazione generale della filosofia oxoniense, questo tipo di ricerche risulta applicazione al discorso etico di una concezione del linguaggio che, abbandonate le posizioni neopositivistiche, si riallaccia strettamente alle concezioni di L.J. Wittgenstein nel suo ultimo periodo.

5. Il ritorno all’e. normativa


Dopo la lunga stagione in cui si è ritenuto che la riflessione filosofica di tipo etico dovesse limitarsi all’analisi del linguaggio morale, l’ultimo trentennio del 20º sec. ha visto una svolta radicale verso concezioni di tipo normativo, che intendono cioè affermare la natura prescrittiva e oggettiva delle richieste della morale. Il nucleo comune di questo orientamento sta nel concepire l’e. come una teoria che risponde a questioni pubbliche, legate alla tematica della giustizia o dell’accettabilità delle istituzioni politiche da un punto di vista morale. L’opera che ha inaugurato questa fase è A theory of justice (1971) dove J. Rawls propone una particolare forma di neocontrattualismo che ha egemonizzato la discussione teorica degli anni 1970 e 1980. La svolta teorica di Rawls consiste nel mettere da parte l’insieme di questioni che avevano caratterizzato la fase metaetica. La vita morale in quanto tale va caratterizzata per Rawls secondo una prospettiva deontologica, che ha a che fare con l’esposizione di alcuni principi in grado di suggerire una soluzione adeguata alle principali questioni di giustizia che si devono affrontare nella sfera pubblica. Due sono i principi al centro della teoria della giustizia: il principio di salvaguardia della libertà e dell’autonomia di ciascun individuo e il principio di ‘differenza’ o equità, secondo cui oneri, premi e limitazioni possono essere accettati sul piano sociale solo se rivolti a migliorare le condizioni dei più svantaggiati, e dunque a rendere più eque le istituzioni che governano la vita associata. Ulteriori e successive aggiunte di Rawls specificavano: l’indicazione di un ordine ‘lessicale’ tra i principi di giustizia, ossia un ordine che vincola e subordina il principio di differenza al principio di libertà; l’enunciazione della regola del maximin, ossia il criterio per cui in situazioni di incertezza bisognerà sempre privilegiare l’esito meno negativo per coloro che si trovano nelle condizioni peggiori; la tesi della completa neutralità delle istituzioni politiche e delle loro regole ispiratrici rispetto alle diverse concezioni della vita buona.

Numerosi sono stati i tentativi di elaborare concezioni alternative a quella di Rawls. R. Nozick ha proposto una teoria etica delle istituzioni pubbliche che ritiene necessario evitare qualsiasi ingerenza statale nella sfera dell’autonomia individuale. Una serie di pensatori contesta poi le premesse individualistiche e per così dire liberali della teoria morale di Rawls. Questa contestazione si spinge più o meno in profondità, dando talvolta luogo a prospettive alternative, come nel caso, per es., della cosiddetta e. comunitaria. Influenti esponenti del comunitarismo, quali A. C. MacIntyre e C. Taylor, hanno contrapposto a Rawls una prospettiva che mette al centro dell’e. non tanto la giustizia quanto l’idea di bene. Altri pensatori si sono impegnati in una riformulazione dell’e. utilitaristica. J.C. Harsányi ha conciliato utilitarismo e teoria della scelta razionale, mettendo al centro del calcolo non più stati d’animo come il piacere o il dolore, ma le preferenze personali. J.J.C. Smart ha cercato di riproporre un utilitarismo edonistico e dell’atto, rivisitandone criticamente i fondamenti. Ancor più marcato è lo sforzo con cui R. M. Hare si è impegnato a rielaborare l’utilitarismo in una forma di moralità maggiormente in grado di soddisfare il requisito di autonomia dell’e. e la sua natura logica in quanto insieme di prescrizioni universalizzabili. Infine, R. B. Brandt ha sviluppato la dottrina utilitaristica in una prospettiva volta a caratterizzare la moralità come qualcosa che verrebbe accettato da uno spettatore ideale pienamente informato, suggerendo che l’utilitarismo è l’unico criterio etico in grado di individuare quell’insieme di norme che accetteremmo di porre alla base di una sorta di società ideale.

Le concezioni utilitaristiche sono state però ampiamente criticate. R.M. Dworkin, per es., ha denunciato l’incapacità dell’utilitarismo di rendere conto del tratto etico più caratteristico della nostra epoca, ovvero la piena salvaguardia del diritto di ciascun individuo a non essere discriminato o limitato nella propria autonomia. Le critiche all’utilitarismo in nome dei diritti documentano già il mutamento di prospettiva verificatosi negli anni 1980 in seno all’e. teorica verso la dimensione della cosiddetta e. applicata. Tale mutamento va di pari passo con il passaggio dalle questioni della giustizia distributiva a un insieme di temi che coinvolgono più da vicino il riconoscimento di diritti individuali di libertà e la sfera privata delle vite degli agenti morali.

L’esigenza di sviluppare una teoria etica in grado di fondare i diritti morali individuali viene soddisfatta nelle più diverse maniere anche nelle culture filosofiche dell’Europa continentale. Così, la filosofia di lingua tedesca, in particolare attraverso gli strumenti dell’ermeneutica, ha cercato di realizzare una fondazione/">fondazione universalistica dei diritti e più radicalmente delle regole e delle norme morali. K.O. Apel si è particolarmente impegnato a connettere la sua analisi pragmatica del discorso alla nozione morale di responsabilità. L’e. di Apel si basa sulla tesi che tanto la comunità universale della comunicazione quanto le condizioni intersoggettive dell’argomentazione razionale presuppongono l’osservanza di una ben precisa norma morale, da intendersi come un dovere specifico che esige il riconoscimento degli stessi diritti a tutti i membri della comunicazione. Sulla stessa linea procede J. Habermas, il quale insiste sulla natura ideale propria della norma, che per essere moralmente adeguata deve risultare universalizzabile, ovvero tale da poter realizzare su di essa un accordo di tutti. Anche nella cultura filosofica francese larga parte della riflessione morale ruota intorno al problema di una fondazione universalistica dell’e. e molte risposte in senso positivo sono state elaborate riprendendo la tradizione esistenzialistica dell’individuazione di situazioni tipiche della vita morale.

6. L’e. applicata


Verso la fine del 20° sec. si afferma l’esigenza che la riflessione etica offra suggerimenti utili per risolvere i nuovi problemi morali suscitati dalle grandi trasformazioni che gli sviluppi della ricerca scientifica e della tecnologia hanno prodotto nelle società occidentali. Per la prima volta si pongono alla condotta umana alcune drammatiche alternative morali riguardanti la cura delle malattie, i modi di nascere e di morire. All’interno del nuovo orientamento di e. pratica o applicata vanno così consolidandosi vari settori di analisi, come l’ e. medica, dalla millenaria tradizione ippocratica, edificata sul rispetto del principio bonum faciendum, malum vitandum, posto a fondamento della relazione medico-paziente. Tuttavia, pur occupandosi da sempre degli aspetti morali connessi all’esercizio della pratica medica, alla luce dei nuovi complessi scenari in cui il medico può essere chiamato a valutare implicazioni e conseguenze di scelte nell’ambito di delicati settori, come la sperimentazione sull’uomo, la gestione delle situazioni di fine vita, il consenso informato, l’e. medica si ridefinisce (➔ bioetica).

Si vanno consolidando anche altri ambiti di ricerca su nuove questioni etiche. Le conseguenze più o meno negative dello sviluppo tecnologico sulle relazioni tra l’uomo e l’ambiente naturale hanno dato corso a un’estesissima letteratura concentrata sulle questioni della cosiddetta e. ambientale. Le diverse concezioni sviluppatesi in quest’area possono essere distinte a seconda che giungano a individuare le regole che devono presiedere al rispetto della natura sulla base di una considerazione prevalentemente antropocentrica della moralità, o si spingano invece a radicare tale rispetto in una forma più o meno profonda di ecologismo, che considera la natura stessa fornita di diritti e dotata dunque di un intrinseco valore morale. Non meno ampia è stata l’elaborazione di teorie volte a porre un limite a una condotta irresponsabile nei confronti delle risorse limitate a disposizione sulla Terra, facendo appello alle responsabilità delle generazioni attuali nei confronti di quelle future.

Anche le questioni etiche relative al trattamento degli animali sono state ampiamente affrontate con un’attenzione del tutto nuova. Il diffuso interesse per le questioni etiche riguardanti il modo di rapportarsi agli animali può essere visto come una presa d’atto delle inutili crudeltà a essi inflitte in conseguenza dell’uso di nuove tecniche, nell’ambito della produzione industriale del cibo e nella sperimentazione a fini farmaceutici o per il perfezionamento di beni di consumo. In quest’area di riflessione molto influente è stata la forma di e. utilitaristica di P. Singer, che ha denunciato come un pregiudizio ‘specistico’ l’impostazione morale che discrimina tra le sofferenze degli esseri umani e quelle degli animali. La tesi di una rilevanza morale delle azioni rivolte agli animali è stata difesa in modo più radicale da parte di teorici che, come T. Regan, hanno basato i diritti morali degli animali sul valore intrinseco delle loro vite.

Come sviluppo e specializzazione della lunga riflessione degli ultimi secoli sugli intrecci tra moralità e decisioni economiche va poi vista quell’area dell’e. applicata comunemente designata e. degli affari. Obiettivo di quest’ambito di ricerca è di rendere esplicita la portata delle relazioni più propriamente morali nell’ambito dell’organizzazione delle imprese impegnate nelle attività produttive. Viene così sistematicamente approfondito il ruolo dei rapporti fiduciari, della reputazione e dei riconoscimenti di autorità di tipo morale per il buon funzionamento della vita delle aziende.

7. E. femminile


Il dibattito teorico sull’e. è stato ulteriormente arricchito dalle proposte emerse dal cosiddetto pensiero delle donne. Le questioni discusse in quest’area vengono elaborate su un piano più o meno alternativo, giungendo nelle correnti più radicali sino a contestare nei suoi stessi fondamenti la concezione morale tradizionale. Da una parte vi è chi, come L. Irigaray, contesta complessivamente la moralità come forma culturale che, attraverso le nozioni di obbligatorietà e dovere, cerca di assicurare l’egemonia e il dominio maschile nella società; dall’altra vi sono pensatrici, come C. Gilligan, che non rifiutano in blocco la possibilità di una moralità, ma ritengono che questa non possa non tener conto della diversità di genere e che dunque un’ e. femminile debba distinguersi marcatamente dall’ e. maschile: in particolare debbono essere contestati l’astrattezza dei valori maschili, il loro preteso universalismo e la loro attenzione esclusiva per le esigenze pubbliche della giustizia. Secondo altre pensatrici, come E.H. Wolgast, V. Held e A.C. Baier, la riflessione femminile può avere invece una funzione più universalistica, nel senso di aiutare a correggere alcune limitazioni della tavola dei valori affermata dalle e. maschili tradizionali, integrandole con valori, quali quelli della cura o della fiducia, che le donne ritrovano come più ampiamente presenti nelle loro esperienze di vita.

Citando il di origine

الاثنين، 25 مايو 2015

Weber, Max


Weber, Max. - Sociologo e storico (Erfurt 1864 - Monaco di Baviera 1920). La sua sociologia, concepita come scienza pura, è immune da concetti naturalistici e da costruzioni speculative: polemico al tempo stesso contro positivismo e storicismo, W. si proponeva di studiare le azioni tipiche, le probabilità calcolabili nel comportamento degli uomini, non i valori soggettivi determinanti nella realtà le azioni; onde la legittimità di una ricerca dei nessi mezzi-fine, non in vista di un giudizio di valore sui fini stessi, ma in vista dell'adeguatezza dei mezzi per conseguirli (Wertfreiheit "libertà dai valori"). Enorme la sua influenza, in particolar modo sulla sociologia statunitense (T. Parsons, Ch. Wright Mills).

VITA E OPERE

Laureatosi a Berlino alla scuola di L. Goldschmidt passò poi, sotto l'influenza di Th. Mommsen, alla storia agraria romana. Chiamato nel 1894 alla cattedra di economia politica di Friburgo in Br., poi nel 1897 alla stessa cattedra di Heidelberg, si trovò a dover/">dover prendere posizione tra scuola storica di Berlino (che faceva capo a G. Schmoller) e scuola teoretica di Vienna (di cui era principale esponente C. Menger). Nel 1903 assunse con E. Jaffé la direzione dell'Archiv für Sozialwissenschaft und Politik, nel quale comparvero i due celebri saggi Über die Objektivität sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnisse e Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus, che inaugurarono la sua attività più originale e feconda. Questi studi lo condussero a formulare una nuova metodologia della ricerca scientifica nelle scienze sociali (storia, economia e, soprattutto, sociologia), che pose in atto nel volume Wirtschaft und Gesellschaft (post., 1922). Nel 1918 accettò la cattedra di sociologia a Vienna, ma la catastrofe lo fece tornare in patria. Compilò con H. Delbrück e altri la risposta del governo tedesco all'accusa di responsabilità per la guerra, collaborò alla redazione della costituzione di Weimar e fu tra i fondatori del Partito democratico tedesco. Nel 1919 fu chiamato alla cattedra di sociologia di Monaco. Postume apparvero le raccolte dei suoi saggi di Religionssoziologie (1920-21), di Wissenschaftslehre (1922), di Soziologie und Sozialpolitik (1924) e di Sozial- und Wirtschaftsgeschichte (1924). I contributi principali di W. in campo sociologico sono rappresentati dall'indagine sui rapporti tra forme religiose e forme economiche, a partire dalla citata ricerca Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus per finire allo studio comparato delle religioni orientali (taoismo, confucianesimo, induismo, buddismo, giudaismo), nell'intento di mostrare, contro le interpretazioni correnti di derivazione marxista (R. Stammler, W. Sombart), l'irriducibilità del comportamento sociale a cause puramente economiche. Celebre la discussissima tesi che fa risalire la formazione dello "spirito" capitalistico (imprenditorialità razionale) all'influenza delle posizioni etiche calvinistiche che concepivano il lavoro come vocazione, ascesi intramondana. Particolarmente importante l'impostazione data alla ricerca sociologica in Wirtschaft und Gesellschaft, dove al centro dell'analisi sono l'azione individuale provvista di senso (Sinn; onde la necessità di una Verstehende Soziologie o sociologia della comprensione), la definizione dell'azione nella sua dimensione individuale e sociale, le indagini sui processi di formazione dei gruppi sociali sulla base di interessi materiali (ricomprendendo in quest'ambito anche le classi sociali) e di affinità di credenze e valori, lo studio delle relazioni sociali basate sull'autorità (tipologia dell'autorità e delle forme di potere: carismatica, tradizionale, legale). Nel campo metodologico W. ha formulato il concetto di "tipo ideale" (Idealtypus) come strumento della conoscenza storica: concetto-limite che deve servire a ordinare i dati empirici. In generale, sotto l'influenza di H. Rickert, W. ha mirato a dare rigore di metodo e precisione di concetti alla scienza. Notevoli anche le sue Gesammelte politische Schriften (post., 1921), testimonianza della sua appassionata partecipazione alle vicende politiche della Germania tra conflitto mondiale e repubblica di Weimar.

الجمعة، 22 مايو 2015

azioni umane

storia Il complesso delle azioni umane nel corso del tempo, nel senso sia degli eventi politici sia dei costumi e delle istituzioni in cui esse si sono organizzate. Modernamente, anche tutto ciò che le condiziona e ciò che esse coinvolgono (fatti geografici ed ecologici, fatti demografici, presupposti antropologici e sociologici, fatti economici).

Il greco Erodoto (5° sec. a.C.) introdusse il termine ἱστορία per indicare sia l’attività di ricerca sia i suoi esiti. Caratteristico del concetto di s. è la sua ambiguità semantica, in quanto esso indica tanto le res gestae (gli «eventi»), quanto l’historia rerum gestarum (il «racconto degli eventi»). Anche nella riflessione sulla s. sono due le connotazioni del termine, che può essere inteso come filosofia della s. (riflessione sul corso della s., volta a scoprirvi un orientamento generale), e come metodologia della s. (riflessione sul metodo della ricerca).

1.1 La s. come processo unitario


La nozione di s. come processo unitario, comprensivo delle vicende degli uomini in tempi e luoghi diversi, e quindi coestensivo con lo sviluppo stesso dell’umanità, è una nozione tipicamente moderna, che si formò nel 18° sec., in concomitanza con la nascita di quella che Voltaire per primo designò come filosofia della storia. Il suo sorgere presuppone il passaggio dalla s. di vicende circoscritte nel tempo e nello spazio alla s. tout court e lo svincolamento delle res gestae dall’historia: la s. diventa così un oggetto a sé stante, una realtà che va colta nella sua unità e nella sua articolazione e a questo scopo sorge l’esigenza di una s. universale e, al limite, di una filosofia della s. che si colloca su un piano ulteriore rispetto a essa.

Alla base di questo passaggio vi è l’allargamento dell’orizzonte storico che si compie in virtù delle esplorazioni oceaniche, della scoperta del Nuovo Mondo, dei nuovi rapporti con l’Oriente, e quindi la conoscenza di società e culture estranee a quella europea. Dalla consapevolezza che la s. di queste società è indipendente e irriducibile al processo che dall’antichità greco-romana ha condotto all’Europa moderna, sorge l’esigenza di una s. universale in grado di abbracciare anch’esse. La Philosophie de l’histoire di Voltaire fornisce un quadro della s. dell’umanità dallo stato selvaggio alla civiltà non limitato all’ambito europeo. L’unità della s. si presenta quindi come un processo che abbraccia le vicende dei singoli popoli e li mette in rapporto tra loro. Le singole nazioni hanno i loro costumi e il loro ‘spirito’ peculiare, ma si incontrano e si scontrano in un teatro comune.

La nozione di s. risponde quindi in primo luogo a un’esigenza di collegamento di processi distinti e differenziati, che può essere soddisfatta attraverso la comparazionedei modi di vita, delle strutture politiche, dei sistemi di credenza, rivolta a determinare le condizioni del sorgere e della permanenza delle diverse forme di governo (Montesquieu), oppure a distinguere ciò che deriva dalla natura degli uomini, non soggetta a mutamento, e ciò che è invece prodotto della consuetudine (Voltaire). Oppure può essere soddisfatta considerando i singoli popoli come momenti successivi di un unico processo.

L’unità del processo non esclude però un’articolazione interna, sia essa costituita da una pluralità di percorsi o direzioni di sviluppo oppure anche da unità in esso comprese. Il momento della pluralità apparirà sempre più marcato nelle formulazioni novecentesche della nozione di s.: per W. Dilthey il mondo storico è una connessione dinamica che comprende in sé una molteplicità di connessioni dinamiche rappresentate dai sistemi di cultura e di organizzazione sociale, ma anche dalle epoche che in esso si succedono, ognuna contrassegnata da propri valori e dalla tendenza a realizzare determinati scopi. Per la filosofia della s. di G.H.F. Hegel, la s. universale è la realizzazione progressiva dello spirito del mondo, attraverso il succedersi dei diversi spiriti dei popoli. La filosofia della s. hegeliana non è l’unica concezione del processo storico che faccia appello a un soggetto unitario: analogo è, per esempio, il ruolo dell’umanità in A. Comte, o dell’evoluzione nella ‘vulgata’ positivistica di ispirazione spenceriana. In tutti questi casi l’unità del processo storico trova il proprio fondamento nell’unità del soggetto che si realizza nel suo corso.

Ma l’unità della s. può essere concepita anche come unità di fine. Il processo storico può cioè essere inteso come un succedersi di momenti orientati verso la realizzazione di uno scopo, e il suo significato esser riposto in essa. La considerazione hegeliana degli individui come strumenti dello spirito del mondo comporta che i loro bisogni e i loro interessi diventino il mezzo con il quale si compie lo sviluppo dell’autocoscienza. Il fine della s. può essere concepito in modi differenti: come intrinseco al processo storico, oppure come assegnato a esso dal di fuori, dalla natura, o ancora come stabilito da un essere superiore che lo dirige così come governa, con le sue leggi, la natura stessa. Nel primo caso la s. è considerata come un processo teleologicamente orientato in forma autonoma, contrassegnato dal trapasso da un originario stato selvaggio di esistenza dell’uomo a uno stato di barbarie e quindi di civiltà, o finalizzato al conseguimento della libertà o alla soppressione dello stato di alienazione prodotto dalla proprietà dei mezzi di produzione e dalla conseguente riduzione del lavoro umano a merce. Nel secondo caso la s. è considerata come parte integrante della natura, sottoposta alle medesime sue leggi oppure a leggi che ne costituiscono una specificazione, e più precisamente come una fase, di solito l’ultima, di un processo evolutivo che dal mondo inorganico conduce a quello organico, e dalla vita alla coscienza. Nel terzo caso la s. si configura come l’attuazione di un piano provvidenziale che ha come fine il regno di Dio, sia esso realizzabile sulla terra o in un mondo ultraterreno. Queste diverse forme di unità si presentano variamente combinate nella cultura moderna.

2. Concezioni cicliche e concezioni lineari


A una concezione ciclica della s., che vede nelle vicende umane il ripetersi di un medesimo processo, si contrappone la concezione lineare, che considera le vicende umane come una successione caratterizzata dalla relativa novità di quanto accade. L’immagine del tempo come cerchio e quella del tempo come linea o freccia costituiscono i modelli più generali di interpretazione della storia. Il modello ciclico, che riflette per un verso il ritmo del giorno e della notte, per l’altro l’alternarsi delle stagioni e dei raccolti, è il più antico; comporta l’assimilazione delle vicende umane a quelle naturali ovvero l’indistinzione tra natura e cultura. Le sue radici affondano nel pensiero mitico.

Si è ritenuta propria dell’antichità una visione ciclica del tempo, mentre si è attribuita alla tradizione ebraico-cristiana, in particolare alla visione teologica di matrice agostiniana, l’elaborazione di una visione lineare. Il pensiero greco ha elaborato teorie cicliche sia a livello cosmologico, sia in ambito più propriamente politico, come nella dottrina che istituisce un rapporto di successione tra le diverse forme di governo. Ma in esso vi sono anche teorie che concepiscono lo sviluppo dell’umanità come un processo di decadenza a partire da un’originaria età dell’oro (Esiodo), o da una costituzione perfetta (Platone); in generale, la storiografia greca e quella romana non si ispirano a una concezione generale della storia. Né la concezione lineare costituisce la caratteristica distintiva della visione ebraica della s., e neppure di quella cristiana. A base della prima vi è piuttosto la nozione di un patto con Dio, che adempirà con l’invio di un messia la promessa del riscatto dall’oppressione; la continuità del racconto biblico riflette appunto la convinzione dell’intervento costante della divinità a sostegno del proprio popolo.

Alla base della visione cristiana vi è l’assunzione di un evento straordinario, l’incarnazione di Dio in Cristo e il suo sacrificio, come evento centrale della s., spartiacque tra l’umanità da redimere e l’umanità redenta, al di là del quale si apre il tempo della speranza in un regno non più terreno ma ultraterreno. Più che il carattere lineare, è il rapporto con la salvezza che costituisce la base della visione cristiana della s., qual è stata elaborata a partire da s. Agostino: ciò comporta la finalizzazione della s. intera alla s. della salvezza, che consente di recuperare la teoria della successione degli imperi – già largamente diffusa nella cultura ellenistica – e di considerare l’unificazione politica del mondo civile sotto l’impero di Roma come condizione della diffusione del messaggio cristiano. Per quanto riguarda il futuro, comporta una prospettiva escatologica che può dar luogo all’attesa di una imminente fine del mondo, e quindi del giudizio finale, o, come in Gioacchino da Fiore, all’attesa del regno dello spirito, che seguirà il secondo regno, inaugurato dall’avvento di Cristo.

L’età moderna segna l’affermazione della concezione lineare, il più delle volte nei termini di un processo positivo, di un graduale avanzamento dell’umanità verso un livello di vita superiore; concezione ciclica e concezione lineare continuano comunque a sussistere entrambe, sebbene in misura/">misura diversa, trovando alimento anche nello sviluppo del sapere scientifico.

La maggior parte delle teorie della s. formulate a partire dal 18° sec. mira a determinare una linea di sviluppo dell’umanità a cui ricondurre le vicende particolari dei singoli popoli. Ciò comporta per un verso l’integrazione in un quadro unitario anche delle società extraeuropee, per l’altro la considerazione dell’Europa moderna come culmine di un processo del quale queste altre società diventano – in una prospettiva universale – momenti preparatori. I tentativi di declinare al plurale la nozione di civiltà rimangono allo stato di enunciazioni. Ancora nel 19° sec. l’evoluzionismo, applicato al mondo storico, mette capo all’individuazione di una linea di sviluppo comune sia alle società storiche, sia (in ambito antropologico) alle culture ‘primitive’.

Sovente, nelle teorie della s. concezione ciclica e concezione lineare si combinano, e sono compresenti in uno stesso autore. Nella prima metà del 18° sec., nella teoria dei corsi e ricorsi storici di G. Vico, la s. ideale eterna, che costituisce il modello di sviluppo di tutte le nazioni, prevede un ritorno all’indietro, che segna l’inizio di un nuovo ciclo; alla fine del secolo, per J.G. Herder il ciclo storico diventa un elemento interno a un processo che presenta, nel suo insieme, un carattere lineare. Nel 20° sec. si avrà un parziale ritorno alla concezione ciclica, sulla base dell’assunzione di un modello organicistico; ma ciò avverrà lasciando cadere, e anzi respingendo apertamente, il presupposto dell’unità del processo storico.

3. Progresso e decadenza


Progresso e decadenza costituiscono i due poli opposti della concezione lineare della storia. L’età moderna è contrassegnata da una concezione che concepisce il processo storico come progresso. Le teorie del progresso fanno spesso ricorso all’analogia tra sviluppo dell’individuo e sviluppo del genere umano, e concepiscono perciò quest’ultimo come una sequenza di fasi corrispondenti alle diverse età dell’uomo. Per F. Bacone, e dopo di lui per molti moderni, l’antichità rappresenta l’infanzia dell’umanità, il mondo moderno la maturità. La prova della superiorità dei moderni rispetto agli antichi è indicata nella possibilità di avvalersi dell’esperienza di questi ultimi, di accrescere il patrimonio di sapere da essi acquisito e tramandato. Il tempo stesso diventa così fattore di progresso, o per lo meno il suo metro; il futuro si presenta quindi (Condorcet), come un terreno aperto al progresso indefinito dell’uomo, destinato a modificare la sua stessa natura fisica e morale. In seguito, il posto che un popolo occupa nel tempo verrà fatto coincidere con il grado di sviluppo che esso rappresenta nel cammino ascendente dell’umanità. Per Hegel ogni popolo è un momento nel processo di realizzazione dello spirito del mondo, e quindi nel cammino verso la libertà: una visione del processo storico in cui non c’è posto per arresti o per un ritorno all’indietro del cammino dell’umanità. Nel passaggio dall’una all’altra formazione economica della società K. Marx vede all’opera un processo cumulativo, rappresentato dallo sviluppo della divisione del lavoro che contrassegna il processo produttivo.

Ma l’analogia tra sviluppo dell’individuo e sviluppo del genere umano si prestava a essere utilizzata anche in funzione di una teoria della decadenza: dopo la maturità l’individuo invecchia e giunge a morte, attraverso un declino più o meno lungo. Le teorie della decadenza fanno leva su questa fase terminale per affermare il necessario declino di ogni popolo, una volta pervenuto al suo pieno sviluppo: è per esempio il caso di Vico. Non sempre progresso e decadenza si escludono. Montesquieu considera la decadenza romana come il risultato naturale della potenza e della grandezza di Roma. Sulla stessa linea E. Gibbon istituisce un rapporto tra prosperità e caduta, tra ascesa e declino. Prima di Condorcet le teorie settecentesche del progresso riconoscono dunque l’esistenza di periodi di stasi o di declino: anche l’Europa, dopo la caduta dell’Impero romano, è andata incontro a un lungo declino da cui è uscita faticosamente e di recente, da un lato con la nascita della scienza moderna e lo sviluppo di nuove tecniche rivolte al dominio della natura, dall’altro con il nuovo assetto politico fondato sulle monarchie nazionali. Al pari che nel passato, anche in futuro l’umanità potrà conoscere arresti nel suo sviluppo, periodi di declino. D. Hume considera naturale la decadenza dei popoli una volta raggiunto uno stato di perfezione. Così l’alternarsi di progresso e di decadenza consente anche il recupero di una visione ciclica, solo che questa non si riferisce più all’umanità nel suo complesso, ma ai singoli popoli. Il progresso dell’umanità si realizza pertanto attraverso il ciclo ascendente e discendente dei popoli che, in modo analogo agli individui, sono destinati a decadere dopo aver raggiunto la loro maturità.

4. Il senso della storia


Alla base della ricerca del sensodella s. stanno lo spettacolo della transitorietà delle cose, delle alterne fortune degli uomini, delle città e degli imperi, oppure il problema del significato dell’esistenza individuale e della possibilità di salvezza.

Un’impostazione del problema consiste nel concepire la s. dell’umanità come parte integrante della natura, ove le vicende umane sono considerate omogenee a quelle di qualsiasi altro elemento naturale. L’evoluzionismo ottocentesco ha visto nella s. dell’umanità la fase ultima di un processo iniziato con l’evoluzione inorganica e con quella organica: essa presenta caratteristiche nuove, ma è in ogni caso sottoposta a leggi evolutive. Questa impostazione mette capo alla negazione di un senso specifico della s. distinto da quello del processo generale dell’evoluzione: la ricerca del senso della s. richiede infatti il riconoscimento di una differenza tra esistenza umana e natura, tra la collocazione dell’uomo nel mondo e il posto che vi occupano altri esseri.

Il significato delle vicende storiche dell’umanità può essere determinato nello sviluppo stesso o nel rapporto tra lo sviluppo e un elemento esterno, trascendente il corso della s.: nel primo caso il senso della s. coincide con la sua direzione di sviluppo; nel secondo, è individuato nella realizzazione di un piano stabilito dalla volontà di un essere superiore, alla cui realizzazione gli uomini possono, al massimo, cooperare. La prima concezione si ritrova di solito nelle teorie della s. come progresso; la seconda è indifferente all’alternativa tra progresso e decadenza, in quanto li considera entrambi in funzione di un piano provvidenziale.

La visione della s. come realizzazione di un piano a essa esterno ha sempre un fondamento religioso. Questa prospettiva provvidenziale è propria delle religioni monoteistiche sorte sul tronco della tradizione ebraica che vedono nella s. il teatro dell’agire divino. Soprattutto il cristianesimo ha dato vita a una teologia della s. incentrata sull’azione redentrice di Dio fattosi uomo, e sulla subordinazione delle vicende umane allo scopo della salvezza sia dei singoli sia dell’umanità nel suo complesso. La concezione della s. come realizzazione di un piano provvidenziale mette capo a una considerazione del processo storico come s. sacra. Ma la s. sacra può essere contrapposta alla s. profana, oppure inglobarla in sé: nel primo caso costituisce una sezione verticale del processo storico, essa sola fornita di senso: è la s. della ‘città di Dio’, costruita muovendo dal racconto biblico della creazione del mondo al momento centrale dell’incarnazione, per proseguire quindi nella s. della Chiesa ritenuta istituzione di origine divina. In questa maniera la s. profana risulta irrilevante per la realizzazione del piano provvidenziale, e quindi priva di significato, oppure le viene attribuito un significato subordinato. Nel secondo caso il processo storico acquista senso in quanto ogni suo momento è visto in collegamento con il piano provvidenziale: quando Herder indica nella s. dell’umanità «il corso di Dio attraverso le nazioni», o Hegel concepisce la s. universale come sviluppo dello spirito del mondo, la s. intera risulta sacralizzata (anche se in Hegel è una versione secolarizzata della provvidenza). Provvidenza e progresso vengono quindi a coincidere; lo sviluppo dell’umanità verso un livello di vita superiore rientra anch’esso nel disegno divino.

Le teorie della s. come progresso trasferiscono da Dio all’umanità la capacità di organizzare le vicende umane in base a un piano. La s. è il cammino attraverso cui l’umanità si solleva dallo stato selvaggio alla civiltà, non governato da alcun disegno provvidenziale: è il risultato dell’opera degli uomini nel corso di innumerevoli generazioni, da inconsapevole a sempre più consapevole. I fini che gli uomini perseguono sono posti da essi stessi; le società si sono organizzate sulla base di progetti umani, la religione stessa è un prodotto dell’uomo che ha contribuito all’incivilimento dell’umanità; quando si è associata al fanatismo e all’intolleranza, è stata invece fattore di barbarie. Entrambe queste alternative fanno riferimento alla s. considerata come processo unitario; presuppongono cioè un senso immanente oppure trascendente, che in qualche modo sovrasta l’agire del singolo individuo.

Il declino delle teorie del progresso, a partire da metà 19° sec., ha messo in crisi anche la ricerca del senso: se nel processo storico non si può ravvisare una direzione più di quanto vi si possa scorgere la realizzazione della volontà divina, allora esso non ha neppure più un senso immanente, intrinseco al processo stesso. La s. riceve il proprio senso dall’agire degli uomini che la producono, o dal sapere storico che ne interpreta, ricostruendole, le vicende; la ricerca del senso si risolve così nello sforzo di dare significato agli avvenimenti.

5. La s. e le ‘storie’


Con lo storicismo contemporaneo, a partire da Dilthey, il problema della s. si è trasformato nel problema della storicità dell’uomo, della sua capacità di proporsi scopi e di produrre valori diversi da epoca a epoca, da società a società. È così venuta meno la possibilità di concepire la s. come unità, come totalità onnicomprensiva. A ciò si è affiancato l’abbandono della prospettiva eurocentrica adottata dalle teorie della s. come progresso. Il distacco è cominciato con lo studio delle culture considerate primitive, di cui la ricerca antropologica dei primi decenni del 20° sec. ha posto in luce l’individualità. Applicato a ogni società, il principio storicistico dell’individualità ha messo in crisi la riduzione a una linea unitaria di sviluppo.

Ma la vera svolta è avvenuta sul terreno filosofico, legata al venir meno della fiducia nella sopravvivenza stessa della civiltà europea all’indomani di una guerra fratricida come quella del 1914-18. Il «tramonto dell’Occidente» proclamato da O. Spengler si presentava come caso particolare di un destino di morte comune a tutte le civiltà, passate e presenti. Umanità è solo un «concetto zoologico», e quindi non possiede una s.; storicamente esistono le singole culture, che nascono, si sviluppano e decadono in modo uniforme, ma rimanendo irriducibili l’una all’altra. L’unità del processo storico si risolve così nella pluralità delle culture. Diversa, e in polemica con quella radicale spengleriana è l’interpretazione di A.J. Toynbee, per il quale la s. è sì s. di civiltà, ma è anche il luogo in cui queste si incontrano e si scontrano, e in cui le civiltà posteriori ereditano il patrimonio culturale di quelle che le hanno precedute. Se Spengler riprende il concetto di ciclo applicandolo alle singole culture, Toynbee recupera l’unità della s. e postula un progresso religioso dell’umanità, considerando le varie civiltà come le ruoteche consentono all’umanità di progredire verso un livello di esistenza superiore.

Entrambe queste teorie della s. sono state sottoposte a critica, tuttavia hanno contribuito a modificare in profondità il modo d’intendere il processo storico. Il vecchio schema tripartito che vedeva la s. suddivisa in Antichità, Medioevo ed Età moderna è stato relativizzato, rivelandosi valido solo in riferimento all’ambito europeo. La stessa continuità tra civiltà antica e civiltà moderna appare problematica; né la cultura europeo-occidentale può essere considerata, alla luce dell’importanza dell’Impero bizantino e della sua influenza nel mondo slavo, l’erede esclusiva di quella greco-romana. Che, al di fuori dell’ambito geografico europeo, si siano sviluppate società e culture fornite di fisionomia specifica, e che esse abbiano percorso cammini differenti, è oggi una tesi unanimemente riconosciuta. Anche un’interpretazione del processo storico in chiave di progressiva razionalizzazione, qual è quella di M. Weber, sottolinea la pluralità delle forme e delle direzioni di tale processo e il carattere unico dello sviluppo occidentale e del suo esito.

La pluralità delle culture e del loro processo storico non comporta però necessariamente l’abbandono della nozione di s., ma piuttosto la sua articolazione in diverse storiein parte indipendenti, in parte intrecciantesi. Se le teorie storiche del primo Novecento hanno posto in luce l’autonomia delle società e delle culture, la loro irriducibilità a un medesimo processo di sviluppo, le vicende posteriori hanno portato in primo piano l’esigenza di coglierne i rapporti, di determinare come questi siano venuti configurandosi diversamente nel corso dei secoli. All’unità del processo storico si sostituisce così l’unità di un quadro che permetta di rendere conto della diversità dei percorsi seguiti dalle diverse società, ma anche del loro incontro.

In questa visione di un processo plurale ma interrelato, concetti come quelli di ciclo, di progresso e di decadenza, a cui le tradizionali teorie della s. facevano riferimento, richiedono di essere riformulati: la s. non costituisce un ciclo, ma conosce cicli, soprattutto economici; non è né progresso né decadenza, ma conosce momenti di sviluppo e di declino che riguardano il più delle volte non tanto le società nel loro insieme, quanto aspetti e settori della loro vita. L’intero apparato concettuale della nostra comprensione della s. esige di venir adeguato non solo ai risultati della ricerca storiografica e delle scienze sociali, ma anche alle trasformazioni del mondo.

الثلاثاء، 19 مايو 2015

sociologia Scienza che ha per oggetto i fenomeni sociali indagati nelle loro cause, manifestazioni ed effetti, nei loro rapporti reciproci e in riferimento ad altri avvenimenti.

1. Nascita e primi sviluppi


La nascita della s. come scienza autonoma è una vicenda concettuale che corrisponde ad alcune componenti significative della rivoluzione industriale compiutasi in Europa durante il 19° sec.: il progresso tecnico e materiale; la trasformazione dei modi di produzione e di organizzazione del lavoro; lo sviluppo delle scienze naturali; l’espansione della classe borghese e l’emergere nel suo seno di alcuni gruppi di intellettuali profondamente delusi dai fallimenti della Rivoluzione francese. La nuova scienza della società poteva consentire alle élite intellettuali interventi attivi sull’organizzazione della società stessa. Così è per gli esponenti del positivismo francese dell’Ottocento – con A. Comte e C.-H. de Saint Simon a capofila – e per gli esponenti del marxismo, le due scuole di pensiero che per prime si fecero interpreti di queste esigenze. Di de Saint Simon era l’idea che la società moderna fosse caratterizzata dall’industria e dalla produzione in genere; che gli scienziati e gli industriali dovessero diventare le classi dirigenti della nuova società; che un nuovo tipo di religione ‘laica’ e umanistica avrebbe dovuto garantire l’integrazione sociale; che si dovesse costruire una teoria generale a fondamento dell’unità delle conoscenze umane.

Queste idee furono ereditate e sviluppate da Comte nel progetto di una s. positiva – distinta, come in un manuale di fisica, tra statica e dinamica – che aveva come scopo quello di fissare le leggi oggettive dello sviluppo sociale, individuate in particolare nella legge del progresso e nella legge dei ‘tre stadi’ (teologico, metafisico e positivo) attraverso i quali si compie necessariamente l’evoluzione storica di ogni società. Alla società considerata alla stregua di un organismo naturale si ispira anche H. Spencer (Principles of sociology, 1883), che applica alla società il concetto di evoluzione tratto dalla biologia darwiniana. Le teorie dell’evoluzionismo sociologico ebbero un seguito particolare in Italia con le diverse correnti della s. giuridica e criminale (da R. Ardigò a G. Ferrero, da C. Lombroso a E. Ferri.). L’altra scuola importante nella fase che si potrebbe definire della protosociologia si richiama al pensiero di K. Marx, dal quale derivano alcune fondamentali categorie (divisione del lavoro, classi sociali, alienazione ecc.).

Dal punto di vista metodologico, la s. è subito segnata dalla contrapposizione fra positivismo e storicismo, ovvero fra la tendenza a ricondurre l’analisi dei fatti sociali al modello di spiegazione generalizzante proprio delle scienze naturali e la tendenza a costituirla come scienza a sé che, al pari della ricerca storiografica, è orientata piuttosto verso compiti interpretativi. Sul primo versante spicca l’opera di É. Durkheim, cui va il merito di aver fondato (o rifondato) la s. su basi di scienza empirica e come ricomposizione coerente di teoria e fatti; sul secondo si situano le riflessioni degli esponenti più rappresentativi della cosiddetta Scuola neokantiana: W. Dilthey, W. Windelband, H. Rickert, cui si deve il tentativo di sistematizzare una linea di demarcazione fra le scienze della natura e le scienze della cultura. Questa dicotomia è in parte ricomposta da Max Weber, per il quale la s. e le scienze sociali in genere, pur muovendosi sul terreno del sapere ontologico e privilegiando l’interpretazione dei fenomeni, non rinunciano al sapere nomologico, cioè agli strumenti della generalizzazione empirica e della causalità sotto forma di leggi.

Altri autori, sempre in Germania, contribuirono al progresso della s. di impianto storicista, approfondendo alcune categorie fondamentali della teoria sociologica: fra questi, F. Tönnies, G. Simmel, E. Troeltsch, A. Weber, M. Scheler, E. Gothein.

2. Evoluzione successiva


Nel corso del 20° sec., la s. si caratterizza per il passaggio e la continua oscillazione dagli estremi della grande teorizzazione agli estremi dell’empirismo astratto. La scuola americana dello struttural-funzionalismo di T. Parsons rappresenta la società come un sistema integrato di ruoli, strutture e funzioni. Tutta una generazione di sociologi – fra i quali G.C. Homans, E. Shils, N.J. Smelser – si ispireranno a questa impostazione, sia pure cercando di correggerne gli aspetti più problematici e controversi: R.K. Merton nell’intento di sostituire il funzionalismo assoluto di Parsons con un funzionalismo relativo, introduce l’idea che, accanto alle funzioni, possano esistere anche disfunzioni, accanto alle funzioni manifeste anche funzioni latenti nonché effetti non attesi nelle conseguenze delle azioni sociali. Infine, da un punto di vista metodologico, fornisce l’indicazione di teorie a medio raggio che possono servire meglio l’attitudine della s. come scienza empirica. Per un altro verso, la s. empirica della cosiddetta Scuola di Chicago si caratterizza per la ricerca quasi maniacale dei metodi quantitativi (P.F. Lazars;feld).

A porre con forza le ragioni dell’individualismo metodologico nelle scienze sociali sono gli esponenti della scuola marginalista austriaca – già con C. Menger agli inizi del 20° sec., e poi con L. von Mises e F. von Hayek – che si contrappongono alla maggior parte delle teorie ereditate dalla tradizione sociologica. La Scuola di Francoforte di M. Horkheimer e T.W. Adorno rivendica, invece, contro le pretese dello scientismo, il primato di una s. critica orientata all’elaborazione di programmi non solo conoscitivi ma anche di azione politica, in particolare contro la razionalità del capitalismo maturo e i suoi strumenti tecnologici e consumistici di dominio sulle masse. Il movimento dei francofortesi accelera un processo di crisi, di identità e di consenso interna alla disciplina, causandone la frantumazione in una pluralità di metodi, approcci e teorie.

L’alternativa fra individualismo metodologico e olismo si riduce, a cavallo fra gli anni 1970-80, a una scelta fra diversi livelli di analisi, ovvero fra contesti di micro- e di macro;analisi. Dalla parte della microsociologia stanno le offerte di metodo e di analisi che si possono definire come s. della vita quotidiana (G.H. Mead, W.I. Thomas, E. Goffmann, H. Garfinkel, A.V. Cicourel, A. Shutz). Dalla parte della macrosociologia si collocano le teorie strutturaliste e sistemiche sulla società. La complessa architettura sociologica di N. Luhmann costituisce un esempio interessante di teoria sistemica costruita con i contributi di più teorie analitiche. Lo strutturalismo – dopo la fase classica degli anni 1960 – ha riproposto una lettura di una società asincronica e di una storia i cui contenuti di socialità sono dati dagli insiemi statici e relazionali di organizzazioni, simboli, forme discorsive assunti sia come modelli euristici, sia come oggetti reali di analisi (A. Giddens, M. Crozier, L.A. Coser).

3. Tendenze della s. contemporanea


Tre linee di tendenza caratterizzano lo sviluppo della s. contemporanea. La prima concerne la moltiplicazione dei paradigmi teorici e degli approcci metodologici. La seconda riguarda la progressiva espansione dei campi della ricerca empirica, in particolare della ricerca applicata, a scapito dell’elaborazione teorica generale. La terza, diretta conseguenza delle due precedenti, è rappresentata dalla frammentazione della disciplina in una pluralità di sottodiscipline che hanno acquisito nel tempo una sempre maggiore autonomia. Sono pochi i sociologi che nutrono ancora ambizioni teoriche così generali da comprendere sotto un unico mantello teorico le altre scienze sociali. Sembra inevitabile dunque che i confini tra la s. e le altre discipline (storia e psicologia sociale comprese) restino sfumati e per di più mutevoli nel tempo. Difficoltà di particolare rilievo si incontrano nel passare dal livello micro al livello macro dell’analisi sociologica. Nell’ampio quadro delle teorie macrosociologiche, il neofunzionalismo/">neofunzionalismo (➔ funzionalismo) ha formulato nuove ipotesi in diversi campi di studio quali quelli relativi alla cultura, al mutamento sociale e alla s. politica.

Uno dei tratti più rilevanti della s. contemporanea è rintracciabile nel notevole incremento della ricerca applicata, in continua espansione anche per corrispondere ai crescenti bisogni conoscitivi non solo delle autorità politiche e delle amministrazioni pubbliche, ma anche di grandi organizzazioni di interessi, di fondazioni con scopi filantropici o di promozione sociale.

Anche la frammentazione disciplinare della s., fenomeno certo non recente, è in progressiva espansione, con lo sviluppo di sottodiscipline sempre più autonome. Tale tendenza è inevitabile non solo perché riflette la più generale tendenza alla specializzazione dei saperi, quanto perché il campo dei possibili interessi di studio della s. è di fatto sterminato.

4. S. dell’arte


La nozione, introdotta da M. Weber nel 1917, e intesa in senso generale come indagine sui rapporti tra arte e società, si presenta complessa e problematica: va infatti operata una distinzione tra studi di s. della cultura, indagini sociologiche vere e proprie applicate alle professioni o ai criteri di valutazione artistici e l’ampio spettro di posizioni per le quali è preferibile la definizione di storia sociale dell’arte. Al primo caso sono riconducibili le posizioni di G. Lukács o T.W. Adorno, nel secondo vanno incluse ricerche come quelle di A. Boime, C. Charle, H.S. Becker, W. Kemp, P. Bourdieu. Nel terzo caso, e cioè nell’ambito degli studi storico-artistici, più che una vera e propria metodologia sociologica si deve rilevare una molteplicità di indirizzi di ricerca che mettono in causa il nesso arte-società all’interno di una consapevolezza, variamente sfumata, degli aspetti stilistici, simbolici, tecnici e comunicativi delle opere. Appartengono a questo ambito gli studi di J. Ruskin, G. Semper, R. Krautheimer, W. Benjamin, A. Hauser, F. Antal, F. Klingender.

All’approccio di questi autori si andò contrapponendo a partire dagli anni 1950 un nuovo concetto di storia sociale dell’arte, di cui sono interpreti E.H. Gombrich e altri studiosi di area anglosassone, che affronta le condizioni materiali in cui l’arte è stata prodotta e fruita, le strutture istituzionali, la committenza, il pubblico. Un’altra direzione di ricerca è quella che prende in esame le abitudini e le attese del pubblico, cercando di individuare le preferenze e le griglie culturali attraverso cui viene filtrata la produzione artistica (E. Panofsky, M. Schapiro, M. Baxandall, G. Romano). La corrente della gender critic ha posto in primo piano, con le ricerche di T.J. Clark, L. Mulvey e G. Pollock, la questione della differenza (di genere sessuale, di classe sociale ecc.) nella produzione e nella decodificazione dei messaggi artistici.

5. S. della comunicazione


La definizione dell’ambito della s. della comunicazione si deve a H.D. Lasswell (1927), ed è esprimibile nella formula «chi dice cosa, a chi, con quali effetti». All’inizio degli anni 1950, E. Katz e P.F. Lazars;feld nell’ambito di una complessa ricerca sull’influenza personale nel flusso della comunicazione di massa, enunciarono in forma sistematica la teoria del flusso a due fasi, secondo cui il messaggio è veicolato dal mezzo al ‘leader d’opinione’ e da questo, una volta decodificato in coerenza con la subcultura del gruppo, riproposto ai ‘seguaci’. Questa teoria ha costituito il paradigma dominante nella s. della comunicazione per oltre vent’anni.

I sociologi della comunicazione in particolare ancora discutono se e in quale modo possano essere accertati effetti sociali di lungo periodo sui modelli di comportamento, sugli stili di vita, sui modi di sentire e di pensare del pubblico, in particolare di quello televisivo. Ci si è domandati, fra l’altro, quali effetti sociali siano ascrivibili alla programmazione evasiva, con risposte che hanno oscillato fra quella di P.F. Lazarsfeld e R.K. Merton (Mass communication, pop;ular taste and organized social action, 1948), secondo cui i messaggi evasivi darebbero luogo a una «disfunzione sociale narcotizzante», e quella, più rassicurante, di J.T. Klapper (The effects of mass communication, 1960), secondo cui «il materiale d’evasione tende con tutta probabilità a riconvalidare l’apatia sociale dell’apatico, ma non spegne il sacro fuoco di chi è socialmente attivo». Si è potuto accertare che l’introduzione della radio e soprattutto della televisione in zone rurali o isolate contribuisce a sconvolgere gerarchie di status consolidate da secoli; che i programmi televisivi violenti possono avere, in determinate circostanze, effetti di stimolo dell’aggressività adolescenziale e infantile; che tra gli effetti della prolungata esposizione dei bambini alla televisione c’è da un lato l’acquisizione di una precoce maturità cognitiva, dall’altro la formazione di una peculiare subcultura preadolescenziale.

Una crescente attenzione è stata dedicata ai modi della comunicazione politica. È individuabile una peculiare logica dei media che, nel caso della televisione, esige una sintassi lineare-visuale di eventi e una struttura narrativa elementare, rapida e incalzante, nella presentazione delle notizie. Ciò implica spettacolarità e un linguaggio che enfatizza i conflitti, vale a dire una grammatica incentrata sulla drammatizzazione.

6. S. della conoscenza


Ramo della s. che si occupa dei rapporti tra conoscenza e realtà sociale. Nata in Germania, trova la sua più compiuta espressione nell’opera di K. Mannheim (specie in Ideologie und Utopie, 1929), che sostenne l’inevitabile influenza del contesto sociale su qualunque forma di pensiero e di conoscenza. In ambito statunitense le tematiche della s. della conoscenza sono state ulteriormente sviluppate da R.K. Merton, che ha tentato un’integrazione del punto di vista della s. della conoscenza con quello della s. strutturale-funzionale. Nella direzione di una s. della conoscenza che non si limiti a trattare il problema dell’ideologia ma affronti piuttosto il tema della conoscenza come tale, del senso comune anzitutto, nel suo rapporto con il contesto sociale, si sono mossi P.L. Berger e T. Luckmann. Un posto a parte in questo quadro occupa l’opera di P.A. Sorokin, la cui analisi ad ampio respiro sull’evoluzione e il mutamento dei sistemi socio-culturali può essere considerata una forma particolare di s. della conoscenza.

Connessa alla s. della conoscenza, la s. della scienza si propone di analizzare le condizioni sociali e culturali entro cui si sviluppa un particolare paradigma epistemologico nei diversi campi umani di esperienza e conoscenza.

7. S. del diritto


Settore specializzato della s. interessato allo studio delle istituzioni giuridiche in rapporto alle funzioni sociali che queste sono designate ad assolvere e a quelle che di fatto assolvono. Si è sviluppata nel Novecento a opera di studiosi di formazione giuridica come R. von Jhering, E. Ehrlich, O. Wendell Holmes e R. Pound; Ehrlich, in particolare, distinguendo il ‘diritto vivente’ dalla giurisprudenza concettuale, sostenne la tesi che la fonte di ogni legge è da ricercarsi nella società piuttosto che nella legislazione o nell’autorità dello Stato. In Italia la disciplina nacque con La filosofia del diritto e la sociologia (1892) di D. Anzillotti, che attribuiva al sociologo un settore specifico di competenza, complementare a quello del filosofo del diritto, nella determinazione del ruolo sociale delle istituzioni giuridiche.

Malgrado gli sviluppi, restano irrisolte le fondamentali aporie della s. del diritto, denunciate dal sociologo francese G. Gurvitch, secondo cui manca ancora una definizione univoca di ‘diritto’ e sopravvivono, nella disciplina, approcci metodologicamente contrastanti e difficilmente sintetizzabili. Lo statunitense P. Selznickha ha individuato nell’insufficiente integrazione fra prospettiva giuridica e prospettiva propriamente sociologica il limite sostanziale della s. del diritto.

La s. criminale è la branca della s. che si occupa dei fenomeni della criminalità. Tra i suoi promotori emerge E. Ferri, il quale la concepì come «una scienza di osservazione positiva che si giova della psicologia, della statistica criminale, come del diritto penale e delle discipline carcerarie», una scienza sintetica che applica il metodo positivo allo studio del delitto, del delinquente e dell’ambiente in cui il delitto si manifesta.

8. S. economica


Risulta dall’applicazione dei concetti, delle variabili e dei modelli esplicativi della s. al complesso di attività che riguarda la produzione, lo scambio e il consumo di beni e servizi. I contributi di maggiore rilevanza provengono da un lato dagli indirizzi del positivismo evoluzionistico e funzionalistico (H. Spencer, É. Durkheim), specialmente attraverso le riflessioni dedicate ai problemi della complessità, nella società moderna, della divisione e specializzazione del lavoro, dell’integrazione e dell’istituzionalizzazione normativa come base stessa delle relazioni di scambio; dall’altro lato dalla s. di matrice storicistica. In questo ambito, vanno ricordate le tesi di G. Simmel sull’imprescindibilità della dimensione economica in ogni contesto di relazioni sociali, le teorie di W. Sombart sul capitalismo moderno, e l’opera fondamentale di M. Weber (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922) volta ad applicare la categoria dell’agire economico razionale alla genesi storica del capitalismo, attraverso l’etica protestante, e alla configurazione del modello burocratico.

La s. economica ha acquisito una propria identità disciplinare per merito soprattutto delle teorie sistemiche di scuola funzionalista, secondo le quali il sistema economico può essere considerato un sottosistema differenziato ma interdipendente dell’azione sociale (T. Parsons e N.J. Smelser, Economy and society, 1956). Per J. Schumpeter, economista con vasti interessi per la cultura sociologica, la s. economica non è che una scienza integrativa dell’analisi economica, che si occupa del modo in cui «le persone sono giunte a comportarsi come si comportano nei loro affari» (History of economic analysis, 1954).

9. S. industriale e del lavoro


Alla fine del 19° sec. e all’inizio del 20° la s. manifesta un’attenzione specifica verso i problemi interni dell’industria e dell’azienda industriale: caratteristiche e ruolo degli imprenditori (T. Veblen), funzione e posizione sociale dei lavoratori (S. Webb), problemi della divisione del lavoro sociale (É. Durkheim), ma soprattutto è M. Weber che può essere considerato il fondatore della s. dell’industria e dell’azienda, come promotore di un programma di ricerche «sulla scelta e l’adattamento dei lavoratori della grande industria» presso il Verein für Sozialpolitik (1907). Una svolta decisiva per gli studi di s. industriale fu determinata dagli esperimenti e dalle ricerche compiute in America da E.G. Mayo e dalla scuola da lui fondata presso il Department of industrial research dell’università di Harvard. Celebre la ricerca presso le officine Hawthorne (della Western Electric Company di Chicago, 1924-32). Dopo la Seconda guerra mondiale, il panorama degli sviluppi della s. industriale ha visto un progressivo estendersi di ricerche e di istituti specializzati.

Nei suoi sviluppi più recenti, la s. dell’industria tende a fondersi con la s. del lavoro nel cui campo è stata prodotta un’ampia letteratura relativa alle forme di organizzazione del lavoro e ai cambiamenti dovuti alle tecnologie produttive. Nell’ambito della s. del lavoro rientrano anche gli studi di s. delle relazioni industriali, con particolare riguardo ai conflitti di lavoro e alle forme di contrattazione.

10. S. della letteratura


Indirizzo di studi che ha il suo punto di riferimento nell’analisi del nesso letteratura-società. All’origine della riflessione sociologica sulla letteratura troviamo i contributi di quella critica romantica che riflette sui problemi della funzione nazionale della letteratura, dei suoi legami con il popolo e con le tradizioni popolari, e infine sul concetto di pubblico, problemi poi ripresi in ambito positivistico, in particolare da H.-A. Taine. La distinzione marxiana di struttura e sovrastruttura, insistendo sul radicamento delle ideologie nei rapporti di produzione, avvalora l’idea di una corrispondenza fra letteratura e sistema sociale. Da tale premessa si dipartono tuttavia indirizzi critici assai diversi, alcuni volti a individuare nelle opere il punto di vista di classe soprattutto per denunciare quelle non rispondenti ai supposti interessi della classe operaia; altri inclini a riconoscere una validità estetica solo alle opere raffiguranti la realtà sociale (realismo borghese e socialista).

Il campo d’indagine della s. della letteratura si è andato spostando nel tempo dall’osservazione delle opere letterarie allo studio di fattori come l’estrazione sociale, l’ambiente di formazione, l’entità e la provenienza del reddito degli scrittori (mecenatismo, secondo mestiere, professionalità ecc.), lo status sociale dell’autore, la sua subordinazione o autonomia, il sistema delle censure e delle ricompense.

Un lavoro approfondito è stato compiuto sulle modifiche apportate dal sistema di riproduzione e diffusione alla composizione e alle competenze del pubblico, ai modi di ricezione dell’opera, al progetto stesso dello scrittore. La produzione a larga diffusione che ha inizio nel primo Ottocento interrompe, secondo R. Escarpit, i precedenti circuiti autore-lettori in cui, per l’appartenenza alla medesima cerchia omogenea e intercomunicante, l’autore poteva facilmente conoscere riserve e apprezzamenti sull’opera. Il nuovo pubblico anonimo dei lettori non possiede più canali propri per esprimere bisogni e giudizi, in quanto il critico appartiene generalmente al medesimo gruppo di intellettuali cui fa capo l’autore. Di qui l’idea, avanzata da Escarpit, di un possibile compito della s. della letteratura, quello di trovare i modi per ristabilire un circuito a doppia direzione. Per conoscere il pubblico reale sono state condotte indagini sulla sua stratificazione sociale, sulle motivazioni di selezione, sui modi di lettura.

La s. della letteratura considera l’opera un fatto sociale non solo per quanto riguarda la genesi del testo, ma anche in quanto essa è percepita come letteratura da un’assise sociale (critici, accademie, cerchie più o meno estese e qualificate di lettori), in quanto viene fruita secondo codici di comunicazione, culturali e ideologici particolari. Da questo punto di vista viene respinta ogni tradizionale divisione a priori fra i grandi scrittori e i minori, fra i capolavori e la letteratura di massa o paraletteratura (in cui rientrano anche giornalismo di consumo, pubblicità ecc.), verso la quale si orientano gruppi consistenti di pubblico, e si tende a identificare gli ambiti sociali di diffusione dei vari generi e la misura/">misura della loro percezione letteraria.

Tra le ipotesi teoriche di s. della letteratura, quelle, opposte fra loro, del controllo sociale da parte dei gruppi egemoni (anche mediante i testi letterari) e della contestazione dell’assetto sociale vigente, o utopia dell’arte (T.W. Adorno, M. Horkheimer); ma vanno ricordate anche quelle sulla funzione di integrazione (coesione o socializzazione) dell’individuo al gruppo e dei gruppi nell’insieme sociale (O.D. Duncan); sulla progettazione e sperimentazione di ruoli sociali, di situazioni, di sentimenti, possibili se non attuali (J. Duvignaud).

A uno stadio più avanzato di verifica sul terreno della ricerca si presentano le tesi di L. Goldmann. L’opera letteraria esprimerebbe la visione del mondo di cui è portatore un gruppo o un aggregato sociale: di conseguenza costituirebbe l’elaborazione formale, fino alla massima coerenza, di elementi concettuali, sentimentali ecc., già presenti implicitamente nel corpo sociale.

11. S. dell’organizzazione


Settore della s. che studia l’insieme delle relazioni deliberatamente scelte dagli individui e dei vincoli dati, necessari per raggiungere obiettivi specifici idonei a durare nel tempo con precise regole di funzionamento. Gli approcci con i quali può essere affrontato lo studio sociologico dell’organizzazione sono due: uno di tipo manageriale, l’altro di tipo strutturale. Il primo rileva gli effetti prodotti dall’ambiente sociale sull’organizzazione e il suo funzionamento; il secondo considera invece il ruolo che l’organizzazione svolge nei confronti del sistema sociale nel quale è inserita, dei suoi equilibri e dei suoi cambiamenti.

A questi diversi approcci possono ricondursi altrettanti indirizzi metodologici: quello proprio della scuola classica (scientific management) che si applica specialmente nell’ambito della s. industriale, e l’altro – proprio della scuola struttural-funzionalista – per il quale l’organizzazione non è che una funzione d’integrazione sociale che rende compatibili gli obiettivi degli individui con gli imperativi del sistema sociale (T. Parsons). L’analisi del fenomeno burocratico, come forma di organizzazione del potere politico, ha spostato sempre più l’attenzione della s. dell’organizzazione verso gli apparati dell’amministrazione pubblica, tanto da costituirla più specificamente come s. dell’amministrazione.

12. S. politica


Vasto settore dell’indagine sociologica, le cui differenziazioni rispetto alla scienza della politica sono oggetto di discussioni e polemiche. Alle origini della s. politica contemporanea si collocano senza dubbio i classici studi sulle élites politiche di G. Mosca e R. Michels; un’altra importante fonte intellettuale è nell’opera di A. de Tocque;ville e, più tardi, nella critica sociale di T. Veblen e di C. Wright-Mills; fra i teorici sociali contemporanei hanno apportato significativi contributi T. Parsons, S.M. Lipset ed E. Shils, mentre il filone degli studi empirici sull’opinione pubblica (sondaggi d’opinione, ricerche sulla partecipazione politica ed elettorale, studi sugli effetti della propaganda) ha favorito, soprattutto negli Stati Uniti, lo sviluppo di un’attitudine empirica fra i sociologi della politica.

L’oggetto centrale della s. politica resta quello definito da M. Weber con l’elaborazione, ormai classica, della tipologia delle forme di potere (tradizionale, carismatico, burocratico-legale). La s. politica ha avuto uno sviluppo impetuoso non solo negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa occidentale, ma anche in numerosi paesi del Terzo mondo e in particolare nell’America latina. La protesta studentesca ha favorito lo sviluppo di studi sulla domanda di partecipazione di categorie sociali tradizionalmente destinate ad assumere posizioni prossime al centro della società; le emergenti istanze di partecipazione operaia hanno richiamato l’attenzione sul rapporto fra lavoro, gerarchie sociali e partecipazione; la decolonizzazione e i fermenti affioranti in diversi paesi del Terzo mondo hanno favorito lo sviluppo di studi comparativi sulle élites, la cultura politica e i meccanismi dei sistemi politici in società che si collocano a diversi livelli di sviluppo economico.

Tutto ciò postula la necessità – come suggerisce N.J. Smelser (Sociology and the other social sciences, 1967) – di tracciare una qualche linea di demarcazione fra s. politica e scienza politica con riguardo al quadro delle rispettive variabili esplicative: mentre la s. politica le sceglie nell’ambito delle condizioni socio-strutturali, la scienza politica le fissa nel complesso delle condizioni politico-strutturali.

13. S. della religione


Lo studio sociologico della religione si può sviluppare a diversi livelli: come indagine sulla religione quale problema centrale per la comprensione della società; come studio della relazione fra religione e altri fattori della vita sociale; come studio delle istituzioni, dei movimenti, dei ruoli religiosi ecc. I primi due livelli d’analisi corrispondono all’orientamento dei massimi rappresentanti di quella s. della religione che, fiorita agli inizi del 20° sec., può definirsi classica: É. Durkheim (teoria funzionale della religione), M. Weber e E. Troeltsch (teoria evolutiva e analisi dell’incidenza della religione sulla vita economica e sociale). Il pensiero di Durkheim è caratterizzato dalla progressiva enfasi sulle componenti normative di quella realtà sui generis che è la società e attribuisce un’importanza sempre maggiore alla religione, che diviene sinonimo del modello funzionale che struttura e integra la società. La teoria funzionale, però, se è soddisfacente per l’analisi delle società primitive, nelle quali il grado di differenziazione fra società e cultura è molto basso, lo è meno per l’analisi delle società altamente differenziate.

Acquisendo il punto di vista di una teoria evolutiva della società, la s. della religione si pone al secondo livello d’indagine e viene a considerare la religione, destituita dal suo ruolo centrale di fattore d’integrazione sociale, nel suo rapporto con gli altri fattori della vita sociale, per rendere conto della funzione modificatrice che essa può esercitare. In questa prospettiva si collocano i contributi di Weber e Troeltsch, che opponendosi alla convinzione marxista di una dipendenza non casuale della religione dalla struttura economica, ma anche alla visione totalizzante della filosofia della storia hegeliana, riconobbero nella religione una variabile indipendente della realtà sociale, capace di determinare o influenzare altri aspetti della medesima realtà e riconducibile nell’ambito motivazionale del singolo individuo in quanto rappresenta la risposta ultima alle esigenze di significato (Weber) o di valore (Troeltsch) che ne muovono l’azione. Nell’opera Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus (1905) Weber evidenziò l’influsso decisivo che la dottrina calvinista della predestinazione ebbe nella formazione del capitalismo moderno e dello spirito a esso soggiacente. Troeltsch, a sua volta, sviluppò un vasto studio delle interazioni fra alcune aree della vita sociale nel mondo cristiano (famiglia, economia, politica, insegnamento) alla luce del fattore religioso, mettendo in evidenza come in ognuna di queste aree il cristianesimo rivelasse due tendenze contraddittorie ma complementari: quella all’adeguamento e quella alla protesta (Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, 1912).

La teoria sociologica, in particolare con T. Parsons, ha cercato una sintesi fra teoria funzionale e teoria evolutiva della società, sganciandole dal preminente interesse religioso che esse avevano avuto nell’opera degli iniziatori. In seguito, la religione ha perso nella considerazione degli studiosi di s. quel posto centrale rispetto all’intera teoria sociale che aveva occupato in precedenza.

Nel corso del Novecento, si è affermato un approccio analitico e quantitativo al quale va ascritta l’ampia elaborazione di indagini collocabili al terzo livello di ricerca inizialmente ricordato, e cioè lo studio sul campo di circoscritti fatti religiosi: ruoli, movimenti, istituzioni, pratica ecc. Nota dominante e ricorrente delle attuali ricerche di s. della religione è l’attenzione all’impatto dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione sulla pratica religiosa e sulla religiosità in genere; le ricerche evidenziano, generalmente, l’effetto secolarizzatore delle condizioni di vita comportate dalla civiltà industriale. Altri temi rilevanti sono l’affermarsi di forme di religiosità laica o di religione civile, e il ritorno o la moda di antiche forme di religiosità.

Un tentativo di restituire alla religione un posto centrale nell’indagine sociologica è stato operato da P.L. Berger e T. Luckmann, che hanno dato vita a una consistente opera teorica connettendo la s. della religione alla s. della conoscenza.

14. S. urbana e rurale


Settori specialistici della s. che hanno come oggetto di analisi le condizioni di vita sociale relative, rispettivamente, agli agglomerati urbani e alle comunità agricole. Tra i campi di applicazione attuali: il problema della stratificazione di classe, i flussi migratori interni, i fenomeni di conurbamento, il localismo, la modernizzazione, la famiglia, l’industrializzazione, la terziarizzazione ecc.

15. Altri settori specialistici


S. del genere Settore che si è sviluppato sotto la spinta dei movimenti femministi e nell’ambito del quale è stata prodotta una mole considerevole di ricerche, con un approccio storico-comparativo, sul rapporto maschile-femminile.

La s. della famiglia è diventata di attualità soprattutto perché la famiglia costituisce sempre più spesso l’unità di riferimento delle politiche sociali del welfare.

Anche la s. della salute e della medicina ha avuto un certo sviluppo in relazione all’espansione e alla crisi dei sistemi sanitari pubblici.

La s. del tempo è disciplina relativamente recente alla quale ha dato un contributo teorico importante N. Elias; si è pure sviluppato un consistente filone di ricerca empirica sugli usi del tempo e sull’organizzazione spazio-temporale della vita sociale.

Una posizione di rilievo, benché ancora minoritaria, è occupata dalla s. storica. Vero è che la s. rimane prevalentemente ‘generalizzante’ e la storiografia procede piuttosto in senso ‘individualizzante’, tuttavia per i sostenitori dell’approccio storico-sociologico i due orientamenti sono da intendere in modo relativo. Se non vuole essere una pura narrazione di fatti, la storiografia non può fare a meno di utilizzare un apparato teorico-concettuale e la s., se non vuole costruire astratti edifici teorici, non può fare a meno di collocare i propri enunciati in un determinato contesto spazio-temporale.

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